Correggio, Parma preferisce una copia a un capolavoro

E' inspiegabile che il comitato scientifico abbia respinto il "Cristo in gloria o redentore", opera del maestro emiliano, concessa dalla Pinacoteca vaticana

Parma - Chiude la mostra di Correggio a Parma. Resterà un rimpianto, per quanti l’hanno perduta, non essere saliti fino al cielo delle due cupole di San Giovanni Evangelista e del Duomo. Vedere Correggio e toccarlo in una posizione da lui stesso imprevista, anche se vissuta in un corpo a corpo con lo spazio, dentro la pittura. Oltre a questa emozione la mostra non ha portato novità, e si è anzi tenuta al di sotto delle possibilità offerte da un riesame delle opere conosciute. Così che, con un’azione parallela, è toccato a Marcello Castrichini e a me di studiare gli affreschi di Giovanni Evangelista restituendo a Correggio il fregio della navata centrale e i mirabili affreschi della cappella Del Bono, acclarati come di Correggio, senza margine di dubbio, dal confronto con i disegni esposti in mostra.

Dunque molta prudenza, nessuna volontà di andare oltre lo stato dell’arte, con qualche sottrazione e qualche improvvida audacia. Così non si è capita la ragione della proposta di un dipinto senza storia, e per di più, anche se di un’abilissima mano, ripetuto da un altro esistente. L’attribuzione di un’opera a un grande maestro è lecita sul piano stilistico, ma deve trovare conforto in riscontri, se non documentari, di provenienza, di attestazione delle fonti. Altrimenti si rischia il fallo. Ed esso non sarebbe da me ricordato come un peccato grave della mostra se, a fronte di una tanto inopinata presenza, non si dovesse registrare l’incredibile assenza di un’opera certa di Correggio, respinta dal comitato scientifico, e non negata in mostra dall’autorevole prestatore, la Pinacoteca Vaticana. Mi riferisco a un capolavoro misconosciuto, ma documentatissimo, affine per soggetto al clandestino ospitato con tutti gli onori, il Cristo in gloria o redentore, scomparto sopravvissuto del trittico dell’Umanità di Cristo per la chiesa della Confraternita di Santa Maria della Misericordia in Correggio.

Certamente originale e certamente dell’epoca, come attestano i vistosi pentimenti, il Cristo in gloria è classificato come opera di maniera nell’augusta sede in cui è pervenuto dopo alcuni passaggi dalla famiglia Gritti all’antiquario Armano, alla collezione Marescalchi di Bologna, dove era tenuto «come originale» come risulta dall’incisione del correggese Giuseppe Asioli. Mantenendo fede in questi dubbi, il comitato della mostra di Parma non ha ritenuto di esporre il dipinto, fino a ieri peraltro visibile nella mostra parallela, e poverina, «Il Correggio a Correggio - Protagonisti e luoghi del Rinascimento». In questa sede si è proposta la ricostruzione del trittico, con il gruppo in terracotta policroma e le coppie degli scomparti laterali. Il pannello centrale è stato trattato alla stregua di una copia senza alcuna ragione né documento, né analisi tecnica che giustificasse una così diminutiva considerazione.

Il dipinto della Pinacoteca Vaticana è l’originale e fu riconosciuto per tale meno di un secolo dopo dalla sua esecuzione dal pittore novellarese Jacopo Borboni. Da allora (1612) a oggi, il dipinto non risulta né copiato né sostituito, ed è quindi quello commissionato al Correggio. In tempi recenti soltanto Nora Clerici Bagozzi e Mauro Lucco hanno riconosciuto l’autenticità e la conseguente autografia dell’opera ed è per questo che, nella certa identità con l’originale, risulta senza senso l’ipotesi che si tratti di una copia «carraccesca». Anzi, il riferimento a Carracci serve a confermare, come sempre per Correggio, l’anticipazione dello spirito barocco delle sue opere sempre sorprendenti. Ha ragione dunque, e vale soprattutto oggi per il confino patito dall’opera e l’esclusione da parte del comitato della mostra parmigiana, Giuseppe Adani quando parla di «affronto all’evidenza», aggiungendo: «Sul piano tecnico è certo che la tela sia stata lavorata direttamente, senza alcun trasporto, come risulta dagli esami del gabinetto scientifico dei Musei Vaticani e come è comprovato dall’antichità e della finezza del tessuto».

Parimenti la composizione appare coerente con la poetica del Correggio, ma anche in relazione alle opere raffaellesche e alla piccola pala di Giulio Romano, detta «La Deesis e i Santi Paolo e Caterina», dipinta per il monastero di San Paolo a Parma, ed esposta in mostra, dove sarebbe stato possibile un utile e istruttivo confronto. Come abbiamo detto, il volto appare corrispondente a quello della «veronica» del museo Getty da cui è derivata l’opera abilmente contraffatta ospitata in mostra. Allo stato della questione e nonostante la prudenza rinnovata, ma anche attenuata dai Musei Vaticani, l’opera è certamente l’originale di Correggio. Un’occasione mancata, anche nel dubbio, per poterla rivedere e studiare sulla base delle ferree certezze sulla sua provenienza e i particolari come i putti e la morbidezza dell’incarnato nella definizione del volto del Cristo. Ci sarebbe da chiedersi come sia possibile che un’opera senza storia, con una volatile attribuzione di uno studioso, e di proprietà di un pur prestigioso mercante d’arte, sia preferita a un’opera di certa provenienza e appartenente a uno dei più grandi musei del mondo che pure la cataloga con comprensibile prudenza.

Non comprensibile perché essa debba essere stata per tutto il tempo della mostra esiliata a Correggio e si sia perduta l’occasione di mostrare al mondo una possibile scoperta allargando i limiti degli studi oltre i dogmi e le leggerezze definiti dal comitato.

Per un Correggio negato fra mille scandali, uno ritrovato, senza difficoltà, perché la città di Parma non si veda sottratta un’opera del suo più grande maestro. Il nuovo Cristo non stava a Parma, era in panchina a Correggio. Ed è giusto dirlo alla fine della festa. Perché una nuova festa cominci.

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