Quando si colpisce un appartenente alla loro casta, per i magistrati non c’è libertà o diritto che tenga. E se poi si tratta di sferrare un nuovo attacco a Il Giornale, l’occasione si fa ancora più ghiotta. E perciò chissenefrega se una giornalista viene costretta a spogliarsi, a cedere alle autorità le proprie pen drive, agendine, e persino il pc del figlio, oltre a quello personale. Non c’è tutela della dignità personale, non c’è tutela delle proprie fonti, non c’è diritto di manifestazione del pensiero. Conta solo scoprire il corpo di un ipotetico reato (eventualmente commesso da un altro senza che il perquisito sia indagato), che potrebbe nascondersi anche nella biancheria intima di una giornalista. “Quando viene interessato un magistrato scattano prontamente i sigilli alle stanze di un organo costituzionale e si perquisiscono con altrettanta solerzia quelle di un giornale, anch’esso avamposto del diritto di manifestazione e diffusione del pensiero, difeso dalla Costituzione".
La dura presa di posizione dell’Unione delle camere penali non fa notizia. Quella del presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino, che lamenta “troppi tentativi di intimidire la stampa”, neppure. E non stupisce nemmeno che l’intransigenza dei magistrati non prenda in considerazione le sentenze di altri colleghi: quelli della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Più volte, infatti, la Corte di Strasburgo si è pronunciata imponendo l’alt alle perquisizioni nelle sedi dei giornali e nelle abitazioni dei giornalisti. Due sentenze in particolare rappresentano una svolta sul tema. La prima è quella Roemen del 25 febbraio 2003, dal nome del giornalista lussemburghese Robert Roemen, che nel 1998 pubblicò un articolo contro un ministro accusato di frode fiscale. Il ministro non la prese bene e i giudici ordinarono di perquisire gli studi e gli uffici del giornalista e del suo avvocato Anna-Marie Schmit per cercare indizi tali da identificare la “gola profonda” nascosta all’interno dell’amministrazione finanziaria del Granducato. Un modo di agire che, secondo la Corte di strasburgo ha violato però gli articoli 8 e 10 della Convenzione. “Le perquisizione aventi per oggetto di scoprire la fonte di un giornalista –si legge nella sentenza - costituiscono, anche se restano senza risultato, un’azione più grave dell’intimazione di divulgare l’identità della fonte”.
“I limiti definiti per la riservatezza delle fonti giornalistiche esigono l’esame più scrupoloso possible”. Si cambia Paese ma la solfa non cambia. Nel 2007 la corte europea ha condannato il Belgio per la perquisizione della casa e dell’ufficio del giornalista Hans-Martin Tillack, corrispondente da Bruxelles del settimanale Stern dal 1999 al 2004. I fatti risalgono al 2004. Tillack aveva pubblicato due articoli su presunte irregolarità delle istituzioni europee in cui citava documenti confidenziali dell’Olaf (ufficio antifrode dell’Ue). Anche in questo caso, la controparte non la prese bene e scattarono le perquisizioni alla ricerca dei documenti. Anche qui violazione dell’articolo 10 della Convenzione e ragione al giornalista. “Anche se i motivi erano “rilevanti” – recita la sentenza – non potevano essere considerati “sufficienti” per giustificare le ricerche subite dal ricorrente”. Alla base di queste decisioni c’è la libertà di espressione, di opinione e di ricevere o di comunicare informazioni senza che vi possano essere interferenze di pubbliche autorità. Nel 2008 la stessa Corte costituzionale ha invitato gli Stati contraenti a uniformarsi a quanto stabilito. Una richiesta caduta nel vuoto. Almeno finora.
E dunque se i confini restano labili e non definiti, ecco che diventa più facile varcare il recinto e violare la segretezza, perquisire gli effetti personali, sequestrare computer e agende dei giornalisti. Il tutto a senso unico. Ma così facendo c’è il rischio di intimidire le stesse fonti che, sapendo come operano certi giudici, ci penserebbero due volte prima di passare un documento a un giornalista.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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