da Roma
Qualcuno in platea torna con il pensiero a quel 26 novembre del 1993, quando davanti allo scetticismo dei giornalisti riuniti nella sede della stampa estera Silvio Berlusconi annunciò la sua discesa in campo. Quattordici anni dopo, nella ben più ampia sala del tempio di Adriano il Cavaliere decide ufficialmente di rilanciare. E formalizza la nascita di quello che si chiamerà Partito della libertà o Popolo della libertà (a decidere, dice, «sarà un’assemblea nazionale»). Con buona pace di tutti, alleati compresi. E con una mano tesa a Walter Veltroni («sono disponibile a un incontro subito») per riscrivere una legge elettorale fondata sul «proporzionale puro con uno sbarramento che possa evitare il frazionismo della politica in tanti piccoli partiti». E che faccia sì, dirà più tardi passeggiando per le vie del centro di Roma, che ci siano «due partiti forti, uno di qui e un altro dall’altra parte».
Per quella che l’ex premier non esita a definire «una giornata storica», nelle prime file del tempio di Adriano siedono tutti i dirigenti azzurri. Che vivono il nuovo corso chi con l’entusiasmo di «una seconda discesa in campo» e chi con la preoccupazione del futuro. Perché, dice il Cavaliere, la nuova formazione nascerà dallo scioglimento di Forza Italia e «per assumere la rappresentanza di chi vorrà far nascere» questo progetto «non c’è altra via che le primarie». Anche perché, ripete più d’una volta, «le porte saranno non aperte ma spalancate a tutti». Sarà, dice, «il corrispondente dell’European people party, perché in Europa noi siamo parte della famiglia della libertà». Tanto che all’appuntamento in piazza di Pietra il Cavaliere arriva con una quindicina di minuti buoni di ritardo, complice una lunga telefonata con il presidente del Ppe Wilfrid Martens a cui, insieme al capogruppo azzurro a Strasburgo Antonio Tajani, ha voluto comunicare la sua decisione personalmente.
Una scelta, quella di Berlusconi, dettata soprattutto dallo «shock» per «le tantissime firme raccolte per mandare a casa il governo Prodi». «Otto milioni», dice. Più «altri due milioni di sottoscrizioni messe insieme da Circoli del buon governo e Circoli della libertà». Un «patrimonio», spiega, che «non possiamo disperdere» tanto che «anche nel prossimo week end gli stessi gazebo di Forza Italia saranno ancora al loro posto per raccogliere le sottoscrizioni al nuovo partito». Anche se, ammetterà più tardi Paolo Bonaiuti che ha cercato fino all’ultimo di mediare, «l’escalation con An» ha avuto il suo peso. Con «la contestazione della platea di Assisi a Fabrizio Cicchitto che è stato, di fatto, il punto di non ritorno». E proprio su Gianfranco Fini il Cavaliere evita di andare allo scontro frontale, pur togliendosi qualche soddisfazione. Perché, derubrica la questione l’ex premier, «non rispondo a piccole polemiche del momento o occasionali». Con Umberto Bossi, invece, nessun problema perché «la Lega non è mai stata chiamata, neanche in passato, a far parte di un partito del centrodestra». Resta una «forza autonoma» e «potrà avere con il nuovo soggetto politico gli stessi rapporti del passato».
Ma oltre al De profundis della Cdl, Berlusconi si dice convinto che «il bipolarismo attuale sia qualcosa da cambiare». Perché «nel Pd» ci sono «persone di buon senso che vedono il bene del Paese ma non possono realizzarlo» per colpa «della sinistra estrema» e anche «nel centrodestra» ci «sono problemi». Dunque, porte aperte al dialogo «con l’altra parte politica» e disponibilità «nell’immediato» a un incontro con Veltroni. Il Cavaliere, infatti, pensa a «una legge elettorale diversa che non può che essere proporzionale». Ma, spiega, «non machiavellico». Serve un «proporzionale puro con sbarramento che eviti un eccessivo frazionamento» perché all’estero «siamo esposti al ridicolo per il numero di forze politiche che popolano il nostro Parlamento». E la soglia di questo eventuale sbarramento potrebbe diventare una sorta di punto di non ritorno per molti partiti, da una parte e dall’altra dello schieramento.
L’obiettivo ultimo di Berlusconi, però, restano le urne. E a questo condiziona il dialogo sulla riforma elettorale. Insomma, ci sarà «la nostra collaborazione solo se ci verrà data assicurazione che una volta in vigore» la nuova legge «si tornerà subito al voto». Ed è su questo che si dovrà trovare un punto d’incontro con il Pd, convinto che il voto non si possa tenere prima del 2009 nonostante il Cavaliere continui a vederlo nel 2008.
Prima di lasciare il tempio di Adriano, Berlusconi assicura di non avere «né rimorsi né rimpianti» e dice di «guardare avanti».
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