Così gli oggetti banali e quotidiani diventano arte con Marcel Duchamp

Da cosa nasce il desiderio di collezionare opere d'arte? «Dalla passione», risponde Luisella Zignone con un breve sorriso. Probabilmente non ama raccontare come, anno dopo anno, ha preso corpo la sua straordinaria collezione e preferisce lasciare che siano le opere a parlare: 150 disegni, grafiche, fotografie e readymade firmati da Marcel Duchamp. Per la prima volta esposti in Italia, fino al 16 luglio sono di casa al Museo d'Arte Contemporanea di Villa Croce in una mostra curata da Sergio Casoli, con un allestimento suggestivo e rarefatto, creato da Massimiliano Fuksas.
Giochi di trasparenze, luci ed ombre, catapultano nell'immaginario complesso ed intrigante di Marcel Duchamp (1887-1968), l'artista che ha scalzato i dogmi secolari dell'arte trascendendone limiti e confini.
Strumenti di questa rivoluzione, il pensiero e l'ironia, con cui Duchamp eleva e legittima ad opera d'arte oggetti banali e quotidiani, in una Francia anni '20 ancora incerta tra l'elegante Art Nouveau e i ruggiti delle Avanguardie. Con uno storico coup de théâtre, Duchamp strappa l'oggetto dal suo essere funzionale alla creazione artistica - come nei collage e negli aggregati polimaterici cubisti e futuristi - e lo trasforma in opera d'arte. Privato della propria funzione ma perfettamente riconoscibile -ovvero decontestualizzato- l'oggetto è investito di una nuova intenzione. Diventa la tabula rasa su cui inscrivere messaggi: opera capace di condensare infinte allusioni e continui rimandi, che spesso trovano l'incipit nei titoli, spiazzanti ed ironici, giocati su doppi sensi o tesi sul filo della suggestione evocativa delle parole.
Nascono da quest'iter concettuale, gli ormai storici readymade: in mostra ve ne sono sette, tra cui «Egouttoir» (1914), «Fountain» (1917, il famosissimo orinatoio ribaltato) e «Why not sneeze Rose Sélavy» (1921), una piccola gabbia per uccelli che racchiude 152 cubetti di marmo che, a prima vista, paiono zollette di zucchero. Tutti sono stati realizzati nel 1964, in collaborazione con Arturo Schwarz (curatore del catalogo edito da Skira e massimo esperto dell'opera dell'artista) in edizione numerata e firmati in occasione del 50° anniversario del primo ready made.
Ma l'eccezionalità della collezione Zignone non risiede in un'opera in particolare, quanto nell'essere un corpus organico, che permette di conoscere, da diverse angolature, l'attività concettuale di Duchamp. Lettere, disegni, incisioni, copertine di libri e cataloghi narrano gli infiniti interessi dell'artista e scandiscono il percorso espositivo, ove non manca all'appello «Door, 11 rue Larrey, Paris» (1927), la porta in legno dell'abitazione parigina di Duchamp, lasciata volutamente mezza aperta e mezza chiusa, a contraddire la natura divisoria dell'oggetto e a suggerire le infinite possibilità insite nell'attraversamento di una soglia. E, ancora, le «Boîtes», tra cui «Boîte Verte», il cofanetto rivestito di velluto verde ove l'artista, alla notizia della rottura della sua opera più importante, raccoglie 93 fogli a stampa dei bozzetti su cui aveva lavorato. Ed è proprio di quest'opera, «La Mariée mise à nu par ses célibataires, même» nota anche come «Grand Verre» (1915-23) -dal supporto ove sono sublimati gli eventi- di cui la mostra restituisce un prezioso excursus, attraverso una ricca serie d'incisioni. Il Grande Vetro è, infatti, un immenso «poema visivo», ove le coordinate spaziotemporali si piegano alla forza del possibile, dell'ineffabile, del mistico e del profano. Un'opera che ancora oggi, come «Etant donné» (1946-68) si offre a infinite interpretazioni, restando comunque un enigma.


Ad arricchire, infine, l'esposizione, una selezione di fotografie, i ritratti di Duchamp firmati da Man Ray, Nicky Ekstrom e Ugo Mulas, a dare un volto a questo straordinario artista che con la sua opera ha influenzato tutta la ricerca contemporanea.

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