Genova - Marta Vincenzi, sindaco di Genova, le piacciono le ronde dopo la «cura Maroni»?
«Premetto che non ho ancora letto bene il decreto attuativo, ma il quadro che emerge dalle anticipazioni mi sembra molto positivo, visto che tiene conto delle osservazioni di molti sindaci e anche di quelle del presidente della Repubblica».
Lei non è mai stata ortodossa e quindi ci è abituata. Già altre volte, ad esempio quando si è schierata contro la manifestazione del Pd anti-governo Berlusconi proprio nel momento più acuto della crisi economica, ci è andata vicina. Ma lo sa che, dopo questa risposta, dopo aver parlato di «quadro molto positivo», rischia di essere processata in piazza da una certa sinistra?
«E perché mai? Io penso che il compito di reprimere il crimine e fare le indagini spetti sempre alle Forze dell’Ordine. Ma mi rendo anche conto che nelle città ci sono delle zone grigie dove il senso di insicurezza percepita è molto forte, o per la presenza di illegalità vera e propria o per disprezzo delle regole e incapacità di relazionarsi correttamente con gli altri e con il bene pubblico».
E qui arrivano le ronde?
«Queste “ronde” che lavorano con gli occhi non sono altro che la riproposizione di uno schema classico di sorveglianza sociale nei quartieri, per cui soprattutto gli anziani vigilavano e facevano attenzione alle proprie strade».
Vuole togliere alla maggioranza anche la primogenitura dell’idea? Non si interrompe un’emozione e non si viola un copyright.
«Non è questione di maggioranza o di opposizione. A Milano, anni fa, nacquero i “comitati delle seggiole”, gruppi di cittadini che facevano la vedetta per strada in zone particolarmente calde. E anche da noi, a Genova, in alcuni rioni, come ai Trogoli di Santa Brigida, le persone si ritrovavano per strada a mangiare, vigilando su ciò che accadeva intorno a loro».
Significa che, per mesi e mesi, siamo stati a discutere di «ronde sì» o «ronde no» e che era una questione puramente ideologica o nominalistica? Che si è perso tempo a parlare di qualcosa che c’era già da tanto?
«No, un rischio vero c’è stato. Ed è stato quello che alcuni gruppi, come abbiamo visto in certe città, soprattutto al Nord, volessero sostituirsi alle Forze dell’Ordine. E queste non le chiamo nemmeno ronde, le chiamo milizie. È una cosa diversa e assolutamente da contrastare».
Eccoci al problema semantico. Vabbè che lei è prof e preside, e pure severa, dicono...
«Non minimizziamo. Il rischio reale era che qualcuno approfittasse anche di questi mezzi per farsi una giustizia fai-da-te, acuendo il senso di sfiducia nelle istituzioni e dando nuova forza alla fucina dell’antipolitica. L’ultima versione anticipata da Maroni, invece, è tutta un’altra cosa: a me, più che ronde, piace chiamarla “sicurezza partecipata”».
Lei l’aggettivo «partecipato» ce lo mette dappertutto, come il prezzemolo in cucina. Ha fatto pure un «Dibattito pubblico» sul tracciato dell’autostrada.
«Perché è vitale, per noi. Se parlo con la città di un percorso autostradale, ne discuto prima. Se voglio maggiore sicurezza, organizzo gruppi di cittadini come i nonni davanti alle scuole Mazzini di Sampierdarena o gli ex carabinieri ai Parchi di Nervi. Quando ero a Bruxelles, c’erano signore ai giardini fornite di potenti fischietti che si facevano sentire quando notavano qualcosa di anomalo. Mi sembra un buon modello».
Molte delle cose che ci sono nel decreto attuativo sembrano prese dal vostro modello. Vuole rubare a Maroni il merito delle ronde?
«Mi piacciono, proprio perché non sono più ronde nel senso deteriore della parola, come quelle che abbiamo visto a Massa. L’attuale impostazione mi pare molto bella e fin troppo severa».
Marta più
«Trovo persino eccessivo vietare le tessere di partito ai partecipanti. L’importante è che non si facciano ronde in nome di un partito, ma non vedo perché vietare ai militanti di usare gli occhi».
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