"La crisi? Ora il pericolo è lo statalismo"

Il grande storico inglese autore del bestseller «L’ascesa del denaro»: "Sbagliato accusare il libero mercato La prova è che i dissesti sono scoppiati proprio nel settore più regolamentato dell’economia: le banche"

"La crisi? Ora il pericolo è lo statalismo"

N elle settimane scorse ha sparato ad alzo zero contro il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, accusato di sottovalutare i pericoli inflazionistici legati al nuovo interventismo statale post-crisi finanziaria.
Per qualcuno un atto di lesa maestà. Specie se si considera che Niall Ferguson, inglese, 45 anni, non è nemmeno un economista in senso stretto. Il suo mestiere è quello di storico (oggi insegna ad Harvard). Nei suoi libri ha analizzato le caratteristiche dei grandi imperi dell’età moderna, da quello inglese a quello americano, fino a specializzarsi in storia economica. Il suo ultimo testo, The ascent of money, L’ascesa del denaro (Penguin ha appena pubblicato l’edizione paperback, in Italia sarà tradotto da Mondadori), è una storia finanziaria del mondo, uscita appena in tempo per suscitare dibattiti e discussioni. «Vedendo in prospettiva storica gli eventi dell’economia si ragiona meglio e anche le crisi hanno un altro aspetto», spiega. «Oggi si sente parlare di fine del capitalismo finanziario o addirittura del libero mercato. Non è vero niente. Sul fatto che stiamo vivendo una complessa crisi finanziaria non ci piove, sulla necessità di profonde riforme regolatorie non c’è dubbio. Ma parlare di fine del capitalismo, addirittura di vendetta di Carlo Marx e della sua lettura della storia... andiamo, non è serio. Oggi il pericolo è uno solo: che per reagire alla crisi si soffochi il libero mercato, si cada in un eccesso di regolamentazione. È questa la malattia che finge di essere la cura».

Certo però lo choc è stato forte. Lei stesso nel suo libro scrive che quanto avvenuto cambierà gli equilibri tra le grandi potenze, che il ruolo degli Stati Uniti non sarà più lo stesso.
«Lo scrivevo già in uno dei miei libri precedenti, Colossus: la fondamentale debolezza dell’impero americano era il suo debito eccessivo e in particolare il suo debito esterno. Questa crisi l’ha dimostrato in modo evidente. Dal punto di vista geopolitico quello che è accaduto non farà altro che rendere più veloce il passaggio del potere mondiale dall’Ovest all’est. E non a caso nei giorni scorsi abbiamo visto il ministro delle finanze americano Tim Geithner correre in ginocchio a Pechino pregando che i cinesi non smettano di comprare i titoli di stato americani. Tutto questo comunque non segnerà la fine del modello economico e finanziario occidentale».

Dal punto di vista ideologico la svolta è stata profonda. Secondo l’opinione prevalente è andato in crisi il modello liberista. Perfino il presidente Sarkozy ha detto che «il capitalismo del laissez-faire è finito». E i sostenitori dell’interventismo statale hanno ripreso coraggio.

«L’equivoco in realtà è credere che l’interventismo statale abbia fatto passi indietro sostanziali negli ultimi decenni. Mi sarebbe piaciuto, ma non è successo. Nonostante gli sforzi dei conservatori da entrambe le parti dell’Atlantico di ridimensionare il ruolo dello Stato. La verità è che la tesi degli statalisti è profondamente sbagliata. Basta considerare il fatto che la crisi è scoppiata proprio nella parte più regolamentata del mondo della finanza, le banche. Non nel mondo dei selvaggi hedge fund come molti prevedevano. Ma tra le care e vecchio banche. E allora è vero il contrario».

E cioè?
«La vera domanda che dobbiamo farci oggi è questa: non è che le banche sono diventate fonte di pericolo e instabilità per colpa di regole che erano semplicemente sbagliate? E soprattutto: il disastro non è accaduto a causa dell’implicita ed esplicita garanzia pubblica concessa ai maggiori istituti, in base alla quale lo Stato riteneva che fossero troppo grandi perché fossero lasciati fallire?».

Quindi Sarkozy si sbaglia...

«Ha assolutamente torto. Anzi, dico di più: uno degli elementi nodali della crisi è direttamente legato all’eccesso di Stato. E in particolare all’enorme deficit di bilancio americano, conseguenza della presidenza di George W. Bush, che non ha mostrato la minima attenzione per i principi conservatori di un corretto bilancio statale. E ha fatto crescere il debito per anni, anche in anni di vacche grasse. Quindi in questa crisi i governi hanno le loro responsabilità e non il caso di mettere sul banco degli imputati le forze di mercato».

Immagino dunque che le primo mosse di Obama la preoccupino.

«Penso che il rischio vero ora siano gli errori della nuova amministrazione Usa. A preoccuparmi è in primo luogo il deficit di bilancio, che si sta avvitando fuori controllo. Nel 2009 supererà il 12% del Pil Usa. E l’ufficio del bilancio federale prevede un raddoppio del debito nello spazio di 10 anni. Non abbiamo visto numeri del genere dalla Seconda guerra mondiale e non mi risulta che ci sia nessuna guerra in corso. L’altro pericolo riguarda la maggioranza democratica al Congresso, pesantemente orientata a ri-regolamentare in maniera restrittiva finanza ed economia. L’idea che i poteri pubblici si mettano a stabilire nuove regole mi mette il terrore».

Non c’è dubbio però che le radici della crisi sono nelle storture di una finanza fuori controllo.

«Ad avere le maggiori difficoltà sono state le banche commerciali come Citigroup, Bank of America, Royal Bank of Scotland. Non le banche di investimento, anche se il fallimento di Lehman Brothers è stato l’evento che ha fatto più rumore. Alle banche commerciali è stato consentito di gonfiare i loro bilanci in maniera eccessiva rispetto alla base di capitale azionario che avevano a disposizione. In pratica: troppi debiti. Perché le banche hanno potuto usare quella che si chiama leva finanziaria? La risposta è che nel passaggio dagli standard internazionali previsti dagli accordi cosiddetti di Basilea 1 a quelli di Basilea 2 la regolamentazione si è rivelata sbagliata è non ha saputo impedire che diventassero instabili da un punto di vista sistemico. Ecco dunque la domanda da farsi di fronte alla crisi: come calcolare il corretto rapporto tra attività delle banche e loro base finanziaria? È un problema tecnico, la crisi del capitalismo o dell'economia di mercato non c’entrano niente».

Un altro tema sollevato negli ultimi mesi è stata la somiglianza con la crisi del 1929. Da storico lei che cosa ne dice?

«Guardiamo subito alle somiglianze. La Borsa prima di tutto. Se si prende l’andamento dal 2007 a oggi e dal 1929 al 1931 il crollo è del tutto comparabile. Anche la piccola ripresa dei corsi che abbiamo avuto di recente potrebbe assomigliare a quella dell’estate del 1931, prima che la crisi diventasse ancora più grave. Quindi una somiglianza superficiale c’è. Ma finisce qui. Perché la risposta politica di oggi è totalmente diversa da quella che ci fu allora. Ottant’anni fa i governi puntarono a bilanci statali in pareggio, alzarono i tassi di interesse per rafforzare la moneta e adottarono misure protezionistiche limitando l’importazione. Anche per la diversità di reazioni la crisi di oggi non è così severa come quella del 1929.

Forse sarà lunga, soprattutto per l’enorme accumulazione di debito delle famiglie americane. Il modello di crescita basato sulle spese del consumatore Usa appartiene ormai al passato. Avremo di fronte anni di crescita molto moderata. Il cammino sarà ancora lungo».

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