Caro Ivanoe, non ti sbagli. Cominciai la mia carriera a L'Eco di Bergamo. Il trasferimento a Milano avvenne negli anni Settanta, quando Nino Nutrizio mi assunse a La Notte. Condivido con te, per soddisfare la tua richiesta, alcuni ricordi del direttore Nino Nutrizio, a cui resto molto affezionato.
Quando ancora lavoravo alla Provincia e collaboravo con L'Eco di Bergamo, occupandomi dapprima solo di cinema e poi anche di sport e cronaca, durante il mio mese di ferie dal grigiore della vita da impiegato, decisi che piuttosto che andare in vacanza mi sarei offerto per una sostituzione estiva, ossia per 30 giorni pieni avrei preso il posto di uno dei giornalisti partiti alla volta delle spiagge. Fu un'ottima scelta, perché la rinuncia al riposo segnò la mia svolta. Un delitto ad agosto scosse l'apatia soffocante della provincia. A Dalmine un ragazzotto massacrò una quattordicenne per motivi passionali. Scrissi un servizio importante per narrare i fatti e qualcuno mi notò. All'Eco ancora non mi prendevano in pianta stabile, ma nella redazione di Bergamo della Notte si era liberato un posto, un redattore era andato in un altro giornale. Quindi il capo della pagina bergamasca iniziò a cercare da subito un valido sostituto da assumere quale praticante che costasse poco. Fui avvicinato. Si trattava di conoscere il direttore Nino Nutrizio, presso la sede centrale del quotidiano, sita in piazza Cavour a Milano. Fu un incontro gelido. Nutrizio aveva un'aria severa e distaccata, mi parlava usando il voi. Restai impietrito quando, osservandomi dritto negli occhi, mi disse: «Sospetto che voi siate cretino. Di certo, se non lo foste, sareste già stato assunto. Ma siccome non mi fido molto del giudizio altrui, ho deciso di mettervi alla prova». Fui preso. Ero dentro. Lavoravo senza sosta. In ufficio eravamo due, io e il capo. Essendo La Notte un giornale del pomeriggio, si usciva di casa alle 6:30 del mattino e alle 7 si era già impegnati nel giro di chiamate agli ospedali, alle forze di polizia, ai carabinieri.
Questa routine fu spezzata un pomeriggio di dicembre, nel pieno del clima natalizio. Il mio capo, avendo notato che ormai mi ero impratichito, mi lasciò da solo qualche giorno in ufficio per fare una piccola vacanza con sua moglie. La cosa non mi dispiaceva affatto, non mi sentivo preoccupato. L'antivigilia di Natale, tra le 15 e le 16, mi telefonò un fotografo, informandomi che era successa una tragedia alla Celadina, quartiere popolare di Bergamo: era stata ammazzata una donna. Ormai l'edizione del pomeriggio era in uscita e non avrei potuto fare subito il pezzo. Mi precipitai sul posto.
Varcata la soglia di quel modesto alloggio, incrociati i visi cupi dei poliziotti che raccoglievano informazioni, entrai in cucina, C'era nell'aria un odore dolciastro e pure disgustoso. Una visione surreale si offriva ai miei occhi di cronista. In una pozza di sangue se ne stava una bimba di appena due anni, aveva gli occhi sbarrati, come immobili, osservava da sotto il tavolo quel viavai di piedi grandi che calpestavano tutto, incluso il sangue. Senza capire. La piccola stringeva tra le mani una fetta di panettone. La teneva avvinghiata alle dita, la stritolava con la sua manina di bimba. Sua madre, una prostituta, era stata accoltellata davanti a lei, impaurita e confusa. Stava affettando il dolce e aveva appena porto un pezzo alla figlia, quando era stata colpita da un uomo, che l'aveva finita lì, nella cucina grigia. Pensai subito alle mie gemelle e a Mattia, l'ultimo arrivato. Quanto il desiderio di prendere in braccio quella bimba e di stringerla e tranquillizzarla per dirle che era tutto passato e che tutto andava bene e portarla via da quell'orrore. Lasciai l'abitazione provato emotivamente.
Rientrato in redazione, elaborai di getto l'articolo per il giorno dopo e lo spedii. L'indomani, nel primo pomeriggio, dopo essere passato dall'edicola per acquistare una copia della Notte, tornai in ufficio e girai il giornale per dare immediatamente uno sguardo alla pagina di Bergamo e trovare il mio articolo. Ma non lo vidi. Riguardai attentamente, impossibile sbagliarsi, la cronaca non c'era. Mi sentivo avvilito, misi la testa tra le mani, sconvolto, timoroso, deluso, depresso. Dissi a me stesso che avevo fatto una gran bella cazzata a licenziarmi dalla Provincia per tentare la strada del giornalismo, perché sarei rimasto senza lavoro, su questo non c'era più dubbio. Al culmine del mio stato d'animo presuicidio, rigirai il quotidiano sulla prima pagina, accasciandomi sulla carta. Ed ecco che lo sguardo inquadrò il mio nome: Vittorio Feltri, il mio articolo era l'apertura dell'edizione, un titolone gigantesco. Non era possibile. Rilessi subito per verificare se avessero modificato il testo. Intatto da cima a fondo. Arrivato alle ultime righe, squillò il telefono, era la segretaria della sede centrale, che poi io assunsi nello stesso ruolo a Libero, non appena lo fondai. «Il direttore ti cerca. Te lo passo», mi sussurra lei con fare concitato. Ero emozionato. Ed ecco la voce inconfondibile di Nutrizio: «Come avrete avuto modo di notare, il vostro articolo è stato di nostro gradimento. Ciò mi induce a pensare che non siete cretino e che dunque siete degno di entrare alla Notte. Il periodo di prova è terminato in anticipo e da oggi consideratevi in pianta stabile». Ringraziai, la telefonata più bella della mia esistenza si concluse così.
Erano gli anni Settanta ed io ero finito al Corriere per puro caso. Era avvenuto un fatto epocale: Indro Montanelli era sloggiato, per fondare un suo foglio, e aveva saccheggiato la redazione di via Solferino portandosi via le firme più illustri, come Enzo Bettiza, Mario Cervi e molti altri signori di qualità. Fu una scissione, come quelle che si realizzano all'interno dei partiti. Quella che era stata un'ipotesi a lungo meditata, o un sogno sempre sognato, diventò realtà: nacque Il Giornale Nuovo, Nuovo, poiché Il Giornale già esisteva, a Varese. Lo stile del quotidiano di Montanelli era il medesimo del Corriere, ma i mezzi erano molto più modesti. Così il 25 giugno del 1974, giorno del mio trentunesimo compleanno, nelle edicole fu venduto il primo numero del quotidiano firmato da Montanelli. Il Corriere, ovviamente, si impoverì poiché mancavano all'appello una cinquantina di redattori di alto livello, allora esso si imbatté nella condizione di dover cercare dei sostituti, se non all'altezza dei fuoriusciti, almeno che fossero i migliori sulla piazza. Tra il novero di quelli selezionati c'ero anche io che lavoravo alla Notte, diretta da Nino Nutrizio, il quale mi aveva assunto qualche anno prima rendendosi così artefice del mio trasferimento da Bergamo alla convulsa metropoli milanese. Fui avvicinato dal direttore del Corriere di Informazione, che era l'edizione pomeridiana del Corriere, Gino Palumbo, il quale mi propose di trasmigrare da piazza Cavour, sede della Notte, a via Solferino. Va da sé che il passaggio era per me un avanzamento che mi faceva gola. Del resto il Corriere era il tempio del giornalismo, scriverci il desiderio ardente di tutti noi cronisti. Raddoppiai il mio stipendio in un nanosecondo, raggiungendo il milione di lire al mese, che per un padre di quattro creature come me era una manna dal Cielo. La nota dolente fu che dovetti affrontare Nutrizio, per comunicargli che avrei abbandonato la Notte. Ero molto imbarazzato, addirittura intimidito, però l'austero direttore non ebbe pietà, da stronzo certificato quale era. Fui ricoperto di insulti, equiparato ad una sorta di meschino traditore. Mi rifugiai in uno stanzino come un cane bastonato.
Il primo giorno al Corriere fu come il primo giorno di scuola. Immensa era l'emozione. Dopo avere rotto il ghiaccio la prima volta sullo scalone della sede di via Solferino, incrociai l'editore e proprietario del Corriere Angelo Rizzoli ancora centinaia di volte, sempre intorno alla stessa ora e sempre sulle stesse scale. O anche lungo il corridoio. E ogni volta mi fermava per le consuete domande. Era piacevole conversarci. Instaurammo un rapporto amichevole seppure distaccato, come conviene tra giornalista e padrone della baracca. Ci davamo del lei. Un dì, sapendo che Nutrizio era intimo amico della famiglia Rizzoli, domandai ad Angelo se il mio ex direttore fosse ancora arrabbiato con me per avere lasciato la Notte. Sul volto angelicato di Rizzoli comparve un'espressione di stupore. Dopo qualche secondo di silenzio mi spiegò: «Impossibile, mi creda, che Nino ce l'abbia a morte con lei. Non lo pensi affatto. Fu proprio lui a segnalarmi il suo nome quando gli feci presente che il Corriere aveva bisogno di rinforzi di alto livello. Ho un cronista un po' strambo ma indubbiamente in gamba che potrebbe fare al caso vostro, si chiama Vittorio Feltri, così, sì, proprio così ci disse una sera a cena. Certo, il suo nome già ci era noto...». Quel diavolo di Nutrizio!
Allorché morì Carlo Pesenti, editore della Notte nonché grande industriale bergamasco, mi recai al funerale per fare un servizio per il Corriere, nel quale raccontai anche dell'abitudine bizzarra di quest'uomo di lasciare la luce accesa nel suo ufficio personale persino durante la notte, al fine di fare credere a coloro che si trovassero di passaggio davanti alla sede della Banca Provinciale Lombarda che Pesenti fosse chiuso nel suo studio a sgobbare, mentre tutti gli altri comuni mortali perdevano tempo nella vana e superflua opera di riposare. Tra coloro che presero parte al funerale intravidi Nutrizio, il quale mi venne incontro festoso e non mi risparmiò entusiastici complimenti. Nutrizio non smetteva di lasciarmi di stucco. Non potei contenermi: «Scusi, ma voi mi trattaste male quando decisi di accettare la proposta del Corriere, eppure Angelo Rizzoli mi ha rivelato che foste proprio voi a segnalarmi». Simulando maldestramente meraviglia nei confronti di se stesso, Nino osservò: «Beh, non ricordo, probabilmente sì, se lo dice Angelo, può essere...
Forse quella sera avevo bevuto un bicchierino di troppo e non capivo più nulla». Insomma, non avrebbe ammesso neanche sotto tortura. Ma rideva. Il direttore non voleva che si sapesse in giro che aveva impoverito il suo giornale segnalando un giornalista alla concorrenza.
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