127, il mezzo secolo dell'amica di tutti

Non chiamatela utilitaria, è stata un sogno per molti italiani

127, il mezzo secolo dell'amica di tutti

Aprile 1971. Mezzo secolo fa, cinquant’anni giusti. Il 3 aprile il Principato di Monaco vince la sedicesima edizione dell’European Song Contest di Dublino con Severine e il brano “Una panchina, un albero, una strada”. Il 4 aprile l’Inter di Roberto Boninsegna batte in casa il Lanerossi Vicenza di Nevio Scala e Oscar Damiani e vola in classifica (vincerà il campionato con 4 punti di distacco sul Milan). Il 13 aprile il giudice Stiz spicca mandati di cattura per Franco Freda, Giovanni Ventura e Aldo Trinco, militanti dell’estrema destra padovana, considerati autori materiali della strage di piazza Fontana a Milano, la bomba esplosa nella Banca Nazionale dell’Agricoltura il pomeriggio del 12 dicembre 1969 (17 morti, 88 feriti). Il 15 aprile il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon mette fine agli accordi di Bretton Woods del 1944: il dollaro USA non è più convertibile in oro. In radio furoreggiano Lucio Battisti con “Pensieri e parole”, i Pooh con “tanta voglia di lei” e “Amor mio” di Mina. Lucio Dalla ha vinto Sanremo con il suo irriverente Gesù Bambino di “4 marzo 1943”. In quell’aprile 1971 una novità s’affaccia sul mercato dell’auto. La Fiat mette in commercio un nuovo modello a quattro ruote, la 127. Nelle intenzioni della fabbrica torinese doveva essere la successione naturale della 850. Cioè l’auto pensata come cerniera tra il boom economico e l’avvento degli anni Settanta, tra la 600 e la 1100. Ne furono venduti oltre 2 milioni e 200mila esemplari, era in pratica una 600 più stilizzata e con l’abitacolo più largo. La 127 univa una nuova idea di utilitaria: comoda in città, capace d’incontrare i gusti anche di un pubblico femminile ma contemporaneamente adatta a viaggi più lunghi (arrivava a tenere i 140 km/h). Era quella la Fiat del grande ingegnere e motorista Dante Giacosa, famiglia originaria di Neive nel cuneese, considerato il padre nobile della motoristica italiana contemporanea. Qui la prima rivoluzione: la 127 aveva il motore davanti, mutuato dall’Autobianchi A112, e la trazione anteriore.

Mentre sterzo, freni e sospensioni erano condivise con la 128, sua sorella maggiore, diciamo. La Fiat aveva accarezzato l’idea del motore anteriore già nei primi anni Quaranta, ma poi l’aveva accantonata per inconvenienti tecnici. I tempi erano maturi per riproporla su larga scala. Il motore posizionato sul lato anteriore consentì di recuperare spazi per i passeggeri e per il design dell’automobile. E qui interviene il secondo protagonista: Pio Manzù, geniale designer figlio del celebre scultore Giacomo, è nato a Bergamo nel 1939. A 29 anni, nel 1968, Manzù aveva iniziato a collaborare con il Centro Stile Fiat concependo la City Taxi, una utilitaria multispazio che, pur non entrando in produzione, sarà la “mamma” della 126, city car nata nel 1972. Giacosa conferma Manzù e il giovane designer sempre nel 1968 inizia a lavorare al nuovo progetto della Fiat: la 127, appunto. Un abitacolo ampio e luminoso, con 4 posti a sedere, un bagagliaio ampio senza ruota di scorta collocata invece nel vano anteriore. Poi il cofano motore cosiddetto “a conchiglia” e i fari anteriori rettangolari. Un design decisamente innovativo per l’epoca. Come in tutti i geni, intersezione di più competenze, anche in Manzù s’incrociavano la precisione del disegno industriale, la creatività dello scultore, l’eclettismo dell’artista. Infatti Manzù non si limitava ai disegni, ma giungeva a modelli in gesso di assoluta precisione e funzionali alla progettazione industriale. Cioè un mix di approccio industriale e dimensione artigianale che non ha mai abbandonato la storia della motoristica in Italia. Ma purtroppo il destino non ha avuto in serbo carte buone per questo genio. Il 26 maggio 1969 Manzù stava recandosi in auto dalla natìa Bergamo a Torino per la presentare ai vertici della Fiat il modello definitivo della 127, la cosiddetta maquette: forse un colpo di sonno, la sua 500 che esce di strada all’altezza del casello di Brandizzo sull’autostrada Milano-Torino. Viene estratto vivo dalla lamiere accartocciate della sua auto, ma Pio Manzù muore poi in ambulanza a soli 30 anni. Così il papà della 127 e di una certa filosofia di utilitarie vincente in tutta Europa non ebbe nemmeno la possibilità di assistere alla nascita della sua creatura.

Che mieterà una serie impressionante di successi: nel 1972 Auto dell’Anno ancor prima del Salone di Ginevra, nel 1973 auto più venduta in Europa, nel 1974 supererà il milione di esemplari prodotti. La Fiat 127 nel 1971 costava 920mila lire (circa 8.160 euro); per capirci, un operaio generico guadagnava 123mila lire al mese, un quotidiano costava 70 lire come una tazzina di caffè, un chilo di pane 230 lire, un litro di vino 200 lire, un chilo di carne oltre 2.000 lire. La 127 è entrata in svariate pellicole del grande schermo (specialmente i polizieschi degli anni Settanta): ad esempio nel film “Quelli della calibro 38” del 1976 c’è una corsa pazzesca che il commissario Vanni fa a bordo della nostra super auto per raggiungere l’aeroporto di Torino Caselle e impedire che un mafioso prenda il volo. La 127 salta da un vagone all’altro di un treno bisarca, le stesse immagini di uno spot del 1971 che si vedono nel film “I contrabbandieri di Santa Lucia” del 1979. Alberto Sordi ne canta le lodi mentre la guida ne “Le vacanze intelligenti”, episodio del film “Dove vai in vacanza?” del 1978. Sempre in quel decennio è stata realmente l’auto di un giovane attore romano che ha fatto in seguito parlare molto, moltissimo di sé: Carlo Verdone. La 127 ha ispirato anche i cantanti: da Samuele Bersani che nel brano “Che vita” del 2002 ricorda nostalgico: “A cosa servono i palloni/ Incastrati sotto le marmitte/ A ricordare quando fuori/ Si giocava fra le 127” a Tony Tammaro che narra amori fugaci e appassionati in una 127 blu nella divertente “Il parco dell’amore” del 1989. La Fiat 127 resterà in produzione, pur con vari modelli, fino al 1987 con 5 milioni e 124mila esemplari venduti. Un mito che resisterà anche ai successi Fiat degli anni Ottanta: la Ritmo (1978), la Panda (1980) e la Uno (1983), quest’ultima sua sorella più giovane. La 127 è stata l’auto su cui diverse generazioni di italiani hanno imparato a guidare. È stata l’auto della gita con la famiglia, quindi auto istituzionale, ma anche del viaggio in solitaria.

Ha unito il bisogno di familiarità in un periodo difficile della storia italiana (gli anni della contestazione e la nascita del terrorismo politico) con una crescente domanda di libertà dei giovani. La 127 ha realizzato tutto questo con un design innovativo, una linea che avrebbe fatto scuola per tutte le auto definite utilitarie: che non ha un’accezione negativa, ma anzi è la dimensione di largo consumo e di trasporto popolare che ha consentito all’automobile di entrare in maniera dirompente nell’immaginario collettivo degli italiani. In fondo questi 50 anni della 127 sono anche un compleanno un po’ nostro.

Perché ci richiamano a un’altra Italia. In cui la creatività e la dimensione artigianale contribuivano a far muovere una nazione. L’amica di tutti, è stato detto. A giudicare dai fan club di appassionati che s’incontrano sulla rete, un’amica ancora giovane…

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