La globalizzazione ha aperto con facilità la strada alla moda del cibo etnico, ma alcuni episodi di cronaca consiglierebbero prudenza.
Gli italiani - specie quelli più inclini ad assecondare usi e costumi di altri popoli - amano frequentare i luoghi di ristorazione dov'è diventato possibile scoprire nuove culture culinarie. Quella del sushi, esemplificativamente, pare una vera e propri mania. A leggere quanto riportato questa mattina da La Verità, però, sembrerebbe esistere un legame - neppure troppo celato - tra il commercio di pietanze straniere e alcune attività illegali. Il discorso non si limita alla pulizia dei banconi dei vari minimarket, ma si estende pure al traffico di droga. Vediamo in dettaglio cos'è stato riportato questa mattina dal quotidiano diretto da Belpietro.
La prima questione da affrontare interessa la tracciabilità, che è uno dei crucci di chi si occupa di verificare la provenienza delle merci importate o prodotte per la ristorazione etnica. Sembra tutt'altro che un'operazione facile. A stupire, però, è soprattutto il più classico dei dossier della Coldiretti, secondo cui le normative del Belpaese su sanità e lavoro non verrebbero rispettate dal 20% delle merci utilizzate per questo global market delle pietanze straniere. Avevamo già affrontato il tema quando avevamo riportato le storture del dominio cinese sull'agricoltura della Toscana. In quel caso, era stato possibile sottolineare come, attraverso l'importazione di semi, la mancata regolarizzazione dei lavoratori e l'acquisto a prezzo maggiorato dei terreni agricoli, la comunità cinese avesse sostanzialmente monopolizzato un certo tipo di mercato. Ma tra le baraccapoli, il mancato rispetto dei dettami sull'inquinamento dell'ambiente e la distribuzione su bancarelle non sempre regolari, vale davvero la pena avvicinarsi in modo acritico a culture così distanti dalla nostra?
Il quadro dipinto sembra davvero preoccupante: "...i Nas - ha fatto notare Alessandro Rico - hanno sequestrato 122 chili di carne e pesce congelati in un minimarket etnico. Gli alimenti erano totalmente privi di etichette. Impossibile stabilire da dove venissero e quando scadessero". Questo è solo uno dei casi territoriali segnalabili. C'è chi ipotizza una stretta correlazione tra il fenomeno del cibo etnico e i reinvestimenti dei gruppi criminali che inaugurerebbero market a pioggia con lo scopo di ripulire i proventi di traffici di diversa tipologia. Questa, per esempio, sarebbe la prassi utilizzata dalla tanto chiacchierata mafia nigeriana.
Ecco, quindi, che girare l'angolo di una qualunque città italiana per acquistare cibo all'interno di uno di questi market può assumere una valenza politica diversa. Nell'accezione del termine per cui il comportamento del singolo rischia di alimentare un mercato che sembra tutto fuorché sano: "Con la carne - si legge sempre sulla fonte citata - , i negozi etnici hanno un rapporto complicato. Il caso più eclatante a Latina. I Nas avevano dovuto mettere i sigilli a un minimarket con annesso laboratorio di sezionamento di carni congelate, allestito in un bagno fatiscente e ovviamente lurido".
608px;">Scoprire usi e costumi dell'altro mondo, insomma, presenta un prezzo, ma il gioco vale la candela? Tra sequestri, mancanza di etichette, diffusione di epidemie - quella più clamorosa ha riguardato l'Est Europa, dove ne è comparsa una legata alla peste suina - il mercato del cibo etnico, più che una risorsa in grado d'integrare popoli e culture differenti, sembra costituire un problema di sanità e salute pubblica. Pure perché l'Italia, in materia di cibo, ha davvero poco da imparare. Con buona pace della globalizzazione.
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