Certamente sarà un caso. Ma da poco rientrato dalla sua visita negli Stati Uniti - un tour di sei giorni tra Boston e Washington all'indomani dei ballottaggi - Giancarlo Giorgetti butta lì, quasi fosse un caso, un pronostico quirinalizio che tiene insieme gli auspici delle diplomazie occidentali con le legittime aspirazioni di un Mario Draghi a cui non dispiacerebbe affatto traslocare armi e bagagli al Colle. Due le soluzioni: confermare Sergio Mattarella «ancora per un anno» oppure, «se questo non è possibile», mandare al Quirinale Draghi. Che «potrebbe guidare il convoglio», cioè il Paese, «dal Colle», dando così vita a un «semipresidenzialismo de facto».
Solo coincidenze, ovviamente. Al netto del fatto che è altamente improbabile che il numero due della Lega - nonché ministro dello Sviluppo economico - si sia ancora una volta avventurato a disquisire di Quirinale senza rete. Soprattutto dopo l'intervista di poco più di un mese fa a La Stampa, con strascichi che sono andati avanti settimane. Allora - anche a Palazzo Chigi - più d'uno ipotizzò che l'uscita di Giorgetti fosse stata fatta senza che il premier ne fosse all'oscuro. Circostanza, va detto, categoricamente smentita dallo staff di Draghi. Ma ieri, di nuovo, Giorgetti è tornato sul tema. Affrontando la questione Colle in un colloquio con Bruno Vespa per il suo libro Perché Mussolini rovinò l'Italia (e come Draghi la sta risanando). L'ultima fatica di una lunga collana di saggi le cui anticipazioni, ormai da circa un decennio, vengono sapientemente veicolate a giornali e agenzie con una tempistica studiata con cura certosina. Ci sta, quindi, che tra i ministri del governo siano in molti a pensare che Giorgetti non abbia semplicemente buttato il cuore oltre l'ostacolo. E che lo schema dei due cammini per il Colle sia di fatto condiviso con i suoi principali interlocutori. Con il premier, perché a Palazzo Chigi il ministro dello Sviluppo è da tutti descritto come uno dei pochissimi che ha una consuetudine quotidiana con l'ex numero uno della Bce. Ma anche con le principali diplomazie occidentali, visto che - da Washington a Berlino, passando per Parigi - è forte il pressing affinché l'ex Bce resti a Palazzo Chigi. Auspicio che la diplomazia americana ha ribadito all'Italia anche nelle recenti interlocuzioni romane in occasione del G20. E se Draghi dovesse restare premier nonostante le sue legittime e umane ambizioni, è evidente che l'unico schema alternativo a lui gradito sarebbe quello di continuare la coabitazione con al Quirinale l'attuale capo dello Stato. È solo Mattarella, infatti, il garante della sua premiership, l'uomo che l'ha chiamato a prendere le redini di un Paese la cui classe politica era allo sbando, l'interlocutore con il quale si relaziona per tutte le scelte chiave. Quelle relative al Pnrr e non solo. Se cambiasse l'inquilino del Colle, insomma, la strada dello stesso Draghi si farebbe tutta in salita. Al netto del fatto che - chiunque vada al Quirinale a fine gennaio - la maggioranza inizierà comunque a ballare sull'ottovolante. Per dirla con le riflessioni di questi giorni del ministro Dario Franceschini, «dopo l'elezione del presidente della Repubblica l'instabilità sarà inevitabile». «Gestibile», forse, se Draghi resterà a Palazzo Chigi. Altrimenti, anche diventasse premier il superdraghiano Daniele Franco, dal giorno dopo «sarebbe un liberi tutti». Che poi, è esattamente l'approccio delle diplomazie occidentali - non solo quella statunitense, ma anche quella delle principali cancellerie europee - che non a caso vedono di buon grado il primo dei due cammini immaginati da Giorgetti: bis di Mattarella e Draghi fino al 2023. Il numero due della Lega, però, non si limita a parlare di Colle. E si espone anche in chiave interna con una durissima critica a Matteo Salvini, reo di non aver ancora fatto in Europa «una scelta precisa». «Capisco la gratitudine verso Le Pen che dieci anni fa lo accolse nel gruppo, ma - affonda - l'alleanza con Afd non ha una ragione». Insomma, «se vuole istituzionalizzarsi Salvini deve fare una scelta precisa», invece la sua svolta europeista «è un'incompiuta». E ancora: «Matteo è abituato a essere campione d'incassi nei film western, ma ormai sono passati di moda. Sono finiti con Balla coi lupi, mentre adesso in America sono molto rivalutati gli indiani nativi». Un affondo che ha forse definitivamente compromesso il rapporto, già labilissimo, con Salvini.
Che sceglie di non commentare pubblicamente, ma che in privato non esita definirsi «allibito» per «l'ennesimo strappo» di Giorgetti. Che ormai considera fuori dal partito. Tanto che ieri pomeriggio ha deciso di convocare già per domani un Consiglio federale che avrà all'ordine del giorno anche le «dichiarazioni in libertà» di Giorgetti.
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