Feng ci accoglie con ospitalità orientali. Le mani si uniscono alle nostre nel saluto e il capo si reclina verso il basso. Il rito dell'educazione. Feng Ye ha trentasei anni è – il nome non lascia margine ad alcun dubbio – cinese. “Sono arrivato qui nel 2001”, ci racconta mentre chiede alle sue collaboratrici di portare una tazza di miso bollente. Perché Feng è un ristoratore. Ma a questo arriveremo tra poco. Feng arriva in Italia nel 2001 per sbaglio, appunto. Si è lasciato la Cina alle spalle per cercare fortuna. Anche se, a differenza di molti suoi connazionali, lui sulla fortuna ci era già seduto sopra. “La mia è una famiglia borghese, io ho iniziato a lavorare a 18 anni. Ma poi avevo voglia di creare qualcosa di mio”. Così è stato. Tra lo stupore dei familiari si licenzia, fa i bagagli e parte per la Germania. Dove non arriverà mai, perché imbocca accidentalmente una delle tante sliding doors della vita. Fa scalo alla Malpensa e da lì non ripartirà più. Problemi di documenti. Rigorosamente falsi. Perché per lui, come per molti cinesi, l'unico modo per scappare a un destino già scritto a ideogrammi ben chiari, era affidarsi a una di quelle agenzie che ti vendono a caro prezzo la penna con cui scrivere la tua vita. Ma a cancellare questa (forzata) illegalità ci pensa la Bossi-Fini, che pochi mesi dopo pialla tutte le irregolarità. Nel frattempo Feng è un peregrino del lavoro. “Inzio a lavorare in una sartoria di Brescia, poi faccio il lavapiatti un ristorante cinese di Bergamo. Poi i sposto ancora a Vicenza e infine a Milano”. Non è una vita facile. Si lavora tanto e si dorme in stanze piccole e affollate. “Nella nostra cultura – ci spiega Feng -, il datore di lavoro fornisce anche il vitto e l'alloggio. Io avevo solo uno zaino con tutta la mia roba dentro. Con quello mi spostavo da una parte all'altra”.
Ma Feng Ye dalla Cina è un uomo ambizioso. Un cinese sui generis che pasteggia a salame e lambrusco e si legge due giornali italiani tutti i giorni, per intenderci. “Nel 2004 ho capito che per poter fare qualcosa di mio, dovevo imparare l'italiano. Ma io fino a quel momento sapevo pochissime parole, perché avevo sempre lavorato solo con i miei connazionali”. E così decide di cambiare – ancora una volta – la sua vita. Va a scuola? Nemmeno per sogno. Va in fabbrica. “Mi serviva un nuovo mestiere. Così ho deciso di andare a lavorare in una fabbrica italiana”. Due anni in cui studio e lavoro si stringono in un nodo che non si scioglierà neppure negli anni successivi. Perché Feng questa idea che per lavorare non si debba mai smettere di imparare, se la porta dietro dalla Cina, dalla sua cultura, dalle sue tradizioni. “Mentre lavoro prendo la patente per l'auto e seguo il corso per il REC, l'abilitazione per poter avere un'attività di ristorazione”.
Anche tra le nebbie padane e i fumi delle industrie, non ha mai smesso di mettere a fuoco il suo obiettivo finale. E nel 2006 ce la fa. “Apro il mio primo ristorante, ma è solo un inizio. Una partenza. Un piccolo locale in via Campania, 20 metri quadrati e tre tavolini. Facciamo sushi da asporto. Mio fratello sta in cucina e io al bancone”. Ed è l'inizio di una favola bella, una storia imprenditoriale di determinazione e successo. Feng e il fratello non si fermano più. E' il periodo del grande boom del sushi e Feng fiuta l'aria. Il ristorante si allarga e ingloba anche il fondo adiacente. Nel frattempo studia libri sulla ristorazione, macina quotidiani e divora biografie di geni dell'innovazione e del marketing come Steve Jobs. Poi apre un secondo locale, più grande, in viale Toscana. Lo porta al successo e poi lo rivende. Con il ricavato afferra al volo un affare: un grande ristorante a Segrate (via Rivoltana 64), in un complesso comerciale vicino al Luna Park. Due piani, centonovanta posti, un ascensore interno, un ambiente curato nei dettagli e un'ottima cucina. È il suo orgoglio, l'attività che ha messo insieme passo dopo passo. Un percorso che è diventato un lungo cammino. Allontanandoci lo vediamo sfumare lentamente tra la nebbia, mentre ci saluta dalla porta del locale. La palazzina del suo ristorante è incastrata tra quelle che ospitano Mc Donald e Roadhouse. Due colossi della ristorazione. Ma chi glielo ha fatto fare?, penso tra me e me. Glielo ha fatto fare Amancio Ortega. Il fondatore di Zara, uno degli uomini più ricchi al mondo. “Ho letto nella sua biografia che ha iniziato ad aprire i primi negozi nei quartieri delle grandi firme. Così la gente vedeva Zara vicino alle grandi griffe. Stando vicino ai marchi famosi si diventa famosi. Chi passa collega immediatamente il tuo nome a quello di aziende che conosce. È la migliore pubblicità”. Mentre ci raccontava questa storia, sulla sua testa, lampeggiava l'insegna Sushi Ye. C'è da giurare che la vedremo sempre più spesso in giro, quell'insegna.
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