Come mai un allenatore che vince lo scudetto con un gioiello di famiglia viene esonerato poco dopo perché reo di avere mancato, come i predecessori, la Champions, regalando brutte figure oltre confine a società e tifosi? Come mai a Torino nessuno mette invece mano a un altro gioiello di famiglia, peraltro fortemente voluto, in quanto originariamente non proprio di famiglia? Un gioiello che non solo perde, ma sta facendo scempio di se stesso in giro per l'Europa e il mondo.
Come mai la Juventus senza soldi può permettersi di pagare milioni indicando in fretta e furia la porta all'incolpevole Sarri? Senza colpe perché lo sapevano anche i sassi che per il giochista toscano i calciatori bianconeri - fenomeno Ronaldo in testa - erano l'argilla sbagliata da modellare ai suoi credo. Come mai invece la Ferrari, realmente colpevole di essersi persa e che di soldi ne ha e produce, bancomat del Gruppo torinese fu definita in tempi neppure tanto lontani, sembra dopo ogni disgraziato Gran premio restare fuori dalle rotte della proprietà sabauda? Quasi non esistesse. Dimenticata. Come se il team principal Mattia Binotto e i suoi uomini fossero dipendenti altrui. Ben inteso: calcio e Formula uno sono mondi uniti dallo sport e separati da tutto il resto. Binotto non è un allenatore, è un ingegnere, un direttore tecnico con centinaia di persone sotto, per di più un manager che fino a pochi mesi fa stava facendo bene. Non si manda via in corso d'opera come un allenatore, si puntella, si rafforza, si sostiene nella tempesta. Semmai lo si allontanerà poi. Invece nella tempesta sta navigando solo, senza faro torinese, come se la Ferrari oggi fosse solo modelli e prodotto e vendite. Il presidente di Fca John Elkann, sembra incredibile doverlo ricordare ma visto che resta sempre nell'ombra il rischio è che in molti se lo dimentichino, è anche il presidente della Ferrari e in luglio aveva parlato di una Rossa che gode di ottima salute. In queste pagine la frase, ad ogni delusione in pista, è stata ricordata perché si scolpisse nella memoria degli appassionati. Il numero uno del Cavallino si riferiva ai risultati nel mercato dell'auto, ai nuovi modelli, alla gestione in azienda dell'emergenza sanitaria da Coronavirus, scindendo l'ambito industriale da quello sportivo.
Errore, questo, imperdonabile agli occhi dei tifosi; errore che i suoi predecessori non avevano mai commesso, né l'appassionato e vincente Montezemolo, né il frettoloso e irruento Marchionne. Errore reso ancora più grave perché rivela come a Torino ci si dimentichi che la Ferrari F1 è molto più che un'azienda e una squadra di calcio. È una nazionale. E il suo rosso vergogna riguarda tutti.
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