Hina Saleem, Sana Cheema, Sanaa Dafani. E infine Saman Abbas. Sono solo alcune delle ragazze musulmane, giunte in Italia, che hanno pagato con la vita il diritto alla libertà di vivere secondo gli usi e costumi occidentali. Storie di giovani donne che si sono opposte all'imposizione del velo e ai matrimoni combinati vendendo cara la pelle. Uccise per mano dei genitori, vittime di famiglie che si sono rivelate clan sanguinari, seppellite nel fiore dei loro anni, senza pietà e senza rimorso. "Queste vicende sono accomunata da un tragico destino. Si tratta di giovani punite con la morte per mano dei propri familiari perché non volevano sottostare agli usi tradizionali della cultura d'origine. Questo tipo di omicidio afferisce alla categoria dei reati culturalmente motivati, ovvero un delitto tipico in cui si manifesta la matrice culturale, come prodotto dello scontro tra 2 culture", spiega al IlGiornale.it la criminologa, psicologa e psicoterapeuta Francesca Capozza.
I delitti "culturalmente motivati"
La vicenda di Saman Abbas, 18enne pakistana scomparsa da Novellara, nel Reggiano, nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio, sulla quale la procura di Reggio Emilia indaga per omicidio premeditato e occultamento di cadavere, ha riacceso i riflettori su quelli che vengono definiti "delitti culturalmente motivati". "Si tratta di un delitto di matrice culturale che presenta tre elementi costitutivi – spiega la criminologa Capozza – Il primo è il motivo culturale: la causa psichica soggettiva della condotta è riconducibile al bagaglio culturale, ovvero usi e costumi, di cui il reo è portatore. Il secondo riguarda la coincidenza di reazione: convergenza tra la motivazione individuale e una regola culturalmente diffusa e osservata nel gruppo etnico di appartenenza. Il terzo, invece, è il divario tra culture: consente che uno stesso comportamento sia socialmente e moralmente accettato in una cultura e non nell’altra". Esecuzioni efferate, delitti orditi per vendicare "l'onorabilità lesa" lavando l'onta con il sangue. In cosa differiscono dai femminicidi? "Rispetto al femminicidio notiamo molte assonanze, in quanto, ricordandoci che anche in Italia fino a 40 anni fa era presente il delitto d'onore - continua l'esperta - si tratta di una concezione culturale dell'uomo padrone che stabilisce il destino della propria donna, moglie o figlia che sia, e ripudia la possibilità che la stessa possa essere libera di pensare, comportarsi, scegliere e quindi vivere".
Hina Saleem
Si tratta del primo "delitto d'onore", avvenuto nell'agosto del 2006, di cui fu vittima una giovane ragazza pakistana in Italia. Hina Saleem nasce a Gujrat, in Pakistan, da genitori musulmani. All'età di 14 anni raggiunge la famiglia a Sarrezzo, una tranquilla cittadina del Bresciano dove i suoi si erano trasferiti qualche anno prima nel tentativo di fare fortuna. Adolescente entusiasta e vivace, Hina si integra agevolmente nella comunità locale maturando, nonostante la giovane età, la convinzione che i rigidi dettami familiari e le pratiche ancestrali della sua cultura d'origine fossero di ostacolo alla sua libertà.
All'età di 17 anni, dopo l'ennesima fuga da casa, Hina denuncia per la prima volta i maltrattamenti subiti in famiglia. "Si accaniscono su di me - mette a verbale presso la caserma dei carabinieri di Villa Carcina – mi accusano di assumere atteggiamenti da cristiana e non da musulmana. Mi impediscono di andare a scuola e di vivere come qualsiasi ragazza occidentale". Allontanandosi dai genitori, Hina non solo fugge dal presente ma anche dal futuro. "Io sono promessa sposa a un mio cugino - continua -figlio della sorella di mia madre, che neanche conosco e che vive in Pakistan". Alla prima denuncia, smentita poi a denti stretti, ne seguono altre due contro il "padre-padrone". Ritirerà pure quelle segnando la sua condanna a morte definitiva.
All'età di 19 anni, la giovane non vive già più sotto il tetto familiare: ha trovato lavoro in una pizzeria di Brescia ed è fidanzata con un 30enne italiano, un muratore non musulmano. I due convivono felicemente fino a quando, l'11 agosto del 2006, il loro sogno d'amore s'interrompe tragicamente: Hina finisce ammazzata dalla sua famiglia. Il delitto si svolge nella casa paterna, dove la ragazza viene attirata con un pretesto mendace. Ad attenderla, ci sono il padre ed alcuni parenti uomini. La madre, Bushra Begun, di 46 anni, e i fratelli sono in vacanza in Pakistan. La 19enne si è rifiutata di seguirli temendo, una volta approdata a Gujrat, di non potersi sottrarre al matrimonio combinato col cugino: una decisione che le costerà la vita. Sulla dinamica omicidiaria e sui ruoli delle persone coinvolte vi sono tutt'oggi versioni discordanti. Certo è che Hina fu uccisa con 20 coltellate: sgozzata. Il suo cadavere venne seppellito nell'orto di casa, con la testa rivolta verso La Mecca. A ritrovarlo, subito dopo la truce esecuzione, fu il fidanzato della giovane che denunciò immediatamente i fatti ai carabinieri.
Le persone coinvolte nell'omicidio furono quattro: il padre Mohammed Saleem, lo zio Muhammad Tariq (sposato con la sorella della madre di Hina) e i due cognati di Hina, Zahid Mahmood e Khalid Mahmood. Il processo, svoltosi con la formula del rito abbreviato, si concluse con la condanna del padre e dei due cognati a trent'anni di carcere per "omicidio volontario (aggravato dalla premeditazione e dai motivi abietti) e distruzione di cadavere", mentre lo zio, che ammise di aver partecipato alla sepoltura ma non al delitto, incassò una condanna a due anni e otto mesi di carcere. Cinque anni dopo aver ucciso sua figlia, Mohammed Saleem, rinchiuso nel carcere di Ivrea, rilasciò la sua prima intervista ai giornalisti Giommaria Monti e Marco Ventura, autori del libro "Hina. Questa è la mia vita". "In Pakistan sarei stato condannato ma non a trent'anni – dichiarò il padre della giovane – A trenta non è giusto. Ho ucciso mia figlia, ma è 'mia' figlia". Nessun rimorso, nessun pentimento.
Sana Cheema
Era il 18 aprile del 2018. Sana Cheema, una 25enne di origini pakistane, si trovava nel suo Paese di origine da qualche mese. Il giorno dopo sarebbe dovuta rientrare a Brescia, dove viveva da sempre, ma non salì mai sull'aereo che avrebbe dovuto riportarla in Italia. Morì prima di poterlo fare, uccisa, secondo l’accusa, dagli uomini della sua famiglia. Sana voleva sposare il suo compagno italiano e quel viaggio in Pakistan sarebbe stato fatto anche per ribadire il suo rifiuto al matrimonio combinato col cugino. L'autopsia sul corpo della ragazza, che venne riesumato, rivelò che Sana era stata strangolata e le erano state rotte alcune vertebre cervicali: una "asfissia meccanica violenta mediante strangolamento", come si legge dalle carte dell’inchiesta italiana.
Il 24 aprile 2018 la procura generale di Kunjah, in Pakistan, fermò il padre, il fratello e lo zio di Sana, accusati di omicidio e di sepoltura senza autorizzazione. L’ipotesi era che la 25enne fosse stata uccisa in quello che venne definito "delitto d’onore". "Siamo dinanzi a un omicidio familiare in difesa dell’onore - ha spiegato la criminologa, psicologa e psicoterapeuta Francesca Capozza, parlando di casi simili - Centrale è la difesa dell’onore familiare da parte dell’omicida nei confronti dell’intera comunità etnica di appartenenza". Solitamente, in casi come questo, "è il capofamiglia a uccidere un membro del gruppo familiare a causa della sua violazione del codice etico e delle regole culturali osservati dalla comunità". Sana non voleva rispettare il matrimonio combinato, una scelta che, in situazioni come questa, potrebbe rendere "intollerabile la sopravvivenza di colui che non ha osservato regole e principi della famiglia. Costui - spiega la criminologa - 'deve' essere ucciso per ripristinare l’ordine violato e l’onore leso. L’onore è inteso quindi come bene giuridico superiore a quello della vita".
Per la morte di Sana Cheema vennero indagati anche altri parenti della ragazza, tra cui il cugino e promesso sposo. Ma nel febbraio del 2019 una Corte distrettuale del Pakistan ha assolto per mancanza di prove e testimoni tutti gli imputati per l’omicidio della ragazza, nonostante le dichiarazioni iniziali del padre. "Le ho messo le mani al collo, l’ho strangolata e uccisa, avrebbe detto nel maggio 2018 il padre di Sana, come riportato al tempo da LaPresse, salvo poi cambiare versione: "Non è vero che abbiamo confessato", aveva ritrattato l’uomo in un’intervista a Repubblica. "Se il referto dei medici legali dice che Sana aveva l’osso del collo rotto - aveva dichiarato il padre, sostenendo che la figlia fosse morta per un malore - è perché deve aver battuto contro il bordo del letto o del divano". E aveva poi aggiunto: "È stato solo per un disegno di Allah". Ora il padre e il fratello di Sana sono in attesa del processo in Italia, che dovrebbe tenersi a ottobre, dopo due rinvii per irreperibilità degli imputati.
Sanaa Dafani
"Forse lei ha sbagliato". Così la madre di Sanaa Dafani giustificava l’omicidio della figlia da parte del marito, dicendosi "disposta a perdonare" il padre dei suoi figli. L'errore di Sanaa è quello che la accomuna a Saman, Sana e Hina: voler vivere in modo diverso rispetto a quello imposto loro dalle famiglie. Sanaa aveva solo 18 anni quando, una sera di metà settembre del 2009, venne uccisa a coltellate dal padre, mentre era insieme al fidanzato italiano di 31 anni. È successo a Grizzo, una piccola frazione di Montereale Valcellina, in provincia di Pordenone. La ragazza marocchina era stata raggiunta dal padre mentre si stava recando in auto nel ristorante dove lavorava come cameriera. Sanaa, che era in compagnia del fidanzato 31enne, socio del locale, era stata intercettata dal padre, che li aveva aggrediti non appena scesi dalla macchina. A nulla era servita la fuga della ragazza verso un vicino boschetto, nel tentativo di evitare la furia del padre: l’uomo l’aveva raggiunta e colpita alla gola con un coltello. Ferito ripetutamente anche il fidanzato, che però era riuscito a salvarsi. Il padre di Sanaa, accusato di omicidio aggravato dal vincolo di parentela e di lesioni, era stato condannato in primo grado all’ergastolo con rito abbreviato, ma la Corte d’Assise d’Appello di Trieste aveva ridotto la pena a 30 anni di carcere. Successivamente, nell’aprile del 2012, la Cassazione confermò la condanna ai 30 anni di reclusione.
Sanaa è un’altra figlia uccisa dal padre. Ma cosa può spingere un padre a fare tutto questo? "Si tratta - commenta la criminologa Capozza - di padri migranti che non consentono ai figli una totale integrazione. Non hanno accolto pienamente i principi e i costumi della cultura occidentale e non accettano che costoro possano esprimere libere scelte non sancite dal pater familias".
Per questo, in casi come quello di Sanaa, Hina, Sana e Saman, "sono accettate e spesso incoraggiate forme di giustizia privata, a cui partecipa tutto il nucleo familiare (anche una madre che non si oppone), caratterizzate da efferatezza ed esaltazione della condotta da parte degli altri componenti". Sono scelte che appaiono "praticabili o 'doverose' - continua l’esperta - per riabilitare l’onore leso da una giovane vita che desiderava semplicemente di poter essere se stessa e decidere come e chi amare".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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