L'Italia, un Paese senza vitalità

Il primo e più clamoroso indice di questo deficit di vitalità è ovviamente la demografia. E poi siamo il paese di gran lunga meno disposto ad aumentare le spese per la difesa

L'Italia, un Paese senza vitalità

L'Italia ha un problema di vitalità. Non ce l'ha certo da oggi, ma con l'andar del tempo la questione, invece che avviarsi a soluzione, sembra si stia facendo sempre più grave. In un momento di ridefinizione degli equilibri internazionali stare in campo con scarsa vitalità è un limite non da poco, destinato a pesare su chiunque governi il Paese.

Il primo e più clamoroso indice di questo deficit di vitalità è ovviamente la demografia. I numeri dovrebbero esser noti a tutti ma giova ricordarli, se non altro perché la denatalità è il più grave fra i problemi che affliggono l'Italia e ha ricadute in ogni ambito, dal debito al welfare, dal lavoro all'istruzione alla sanità. Non dovremmo quasi parlar d'altro, insomma. Le nascite sono in calo costante da più di quindici anni: siamo passati da 570mila nel 2008 a 380mila nel 2023, e le proiezioni Istat ci dicono che nel 2024 è stato toccato un ulteriore record negativo. Siamo scesi sotto il tasso di sostituzione di 2,1 figli per donna quasi mezzo secolo fa, e ormai siamo di poco sopra a un figlio per donna.

Di questo problema vengono spesso evidenziate le cause economiche, se non altro perché sono le uniche sulle quali si possa intervenire nel breve periodo. Sta diventando sempre più evidente, tuttavia, che la questione non è soltanto materiale, ma ha una robusta componente culturale. Una dettagliata ricerca demoscopica della Fondazione Magna Carta i cui risultati saranno pubblicati a breve ci dice che, alla domanda «desidero avere uno o più figli o pianifico di averli», rispondono negativamente più di quattro su dieci giovani sotto i 35 anni e quasi sette su dieci adulti fra i 35 e i 49. Non siamo poi troppo lontani dalla procreazione come scelta minoritaria.

Un altro sondaggio, uscito online qualche giorno fa sulla rivista «Le Grand Continent», si sofferma sulla temperatura dell'opinione pubblica rispetto al nuovo quadro geopolitico e alla questione della difesa, coprendo nove nazioni europee. Come già era risultato da ricerche precedenti, l'Italia è il paese di gran lunga meno disposto ad aumentare le spese per la difesa (19 per cento contro una media europea del 43), meno disposto a tutelare militarmente l'Ucraina (37 contro 54 per cento), meno disposto a farsi proteggere dall'ombrello nucleare francese (47 contro 61 per cento). Questi numeri acquistano un significato ancora maggiore se consideriamo che gli italiani non si distanziano molto dal resto del continente, invece, nel ritenere che il rischio di un conflitto armato sul territorio dell'Unione europea nel prossimo futuro sia elevato (49 per cento contro la media europea del 55), e nel diffidare degli Stati Uniti di Trump (52 contro 51 per cento).

Insomma: la metà degli italiani crede che la guerra ci sarà e che dovremo sbrigarcela da soli, ma meno di un italiano su cinque ritiene necessario prepararvisi. Chi legge si chiederà a questo punto che cosa c'entri tutto ciò con la vitalità. A me sembra che qualcosa c'entri: che sia il sintomo di una profonda sfiducia in se stessi e nel valore del proprio mondo, della scelta di chiudersi nel guscio dei propri problemi immediati, del rifiuto d'immaginare un futuro. E sia ben chiaro, a scanso di equivoci: non sto certo lamentando l'assenza di un'ipertrofia vitalistica che spinga a voler spezzare le reni a chicchessia, ma del minimo vitale necessario a difendersi dalle minacce esterne secondo l'articolo 11 della Costituzione nata dall'antifascismo.

Anche l'attuale situazione di stabilità politica può esser letta come una conseguenza della perdita di vitalità, infine. Poiché il declino va avanti da tre decenni, gli italiani hanno sperato di trovare soluzione prima nel sistema politico bipolare, e poi, quando quello è collassato, nei governi tecnici di Monti e Draghi, nel renzismo, nel salvinismo, nel Movimento 5 stelle. Dal 2013 al 2022 milioni di voti si sono spostati freneticamente da una parte all'altra, da un'elezione all'altra, in tempi anche molto brevi. Da prima delle ultime elezioni politiche, tuttavia, questi movimenti sono sostanzialmente cessati, o quanto meno si sono ridotti a pochi punti percentuali. E contemporaneamente, com'è ben noto, l'astensione ha raggiunto soglie record. Generando l'impressione che la politica si sia stabilizzata sulle ali della delusione, non dell'entusiasmo.

Se può trarre beneficio dalla quiete dopo la tempesta, in conclusione, l'attuale governo si trova pure immerso in un clima storico sfavorevole. Un clima devitalizzato, appunto. L'interesse nazionale che Giorgia Meloni si propone di tutelare è interpretato da una parte preponderante dell'opinione pubblica in maniera introversa e isolazionista. E l'esecutivo sarà costretto a remare contro quest'interpretazione.

Perché dev'essere chiaro che respingere la richiesta di provvedere alla nostra difesa, nel momento in cui ci viene sia dagli Stati Uniti sia dall'Europa, concordi almeno in questo, significherebbe confinarsi ai margini del nuovo ordine internazionale che, confusamente e faticosamente, sta prendendo forma. Ossia certificare la nostra irrilevanza.

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