Può sembrare soltanto una coincidenza, eppure desta una certa emozione scoprire che Madre Terra, la scultura che Pietro Cascella plasmò con fatica negli ultimi giorni della sua vita, si trovi in uno dei centri di astrofisica più importanti al mondo, l'ICRANet di Pescara, dove viene amorevolmente custodita dal presidente Remo Ruffini, scienziato di fama internazionale e teorico di stelle bosoniche e buchi neri.
Madre Terra, l'originale al Castello della Verrucola, è una figura femminile di settanta centimetri di altezza, scolpita nel bianchissimo marmo di Carrara e progettata per essere collocata contro un gigantesco disco in travertino, trasposizione poetica del cosmo. Avrebbe dovuto rappresentare, nella mente dell'artista, il collegamento urbanistico tra Piazza della Repubblica e il lungomare pescarese, una bussola per il levante, l'Adriatico e l'Approdo alla Nave sul mare, l'opera monumentale divenuta meta immancabile dei pescaresi e simbolo della città dal 1987.
Pietro aveva addirittura ideato una piazza intorno all'edificio dell'ICRANet, di fronte alla stazione ferroviaria, con un corso d'acqua stretto nella pietra e la sacrale figura femminile rivolta verso Corso Umberto: un viso dai tratti picassiani, con il mento all'insù e lo sguardo pensoso rivolto al cielo; mentre le mani sono congiunte sopra il ventre accogliente, metafora della vita e della nascita. Nel non finito di Cascella è impressa l'instancabile energia dello spaccapietre, che non si esaurisce neppure negli ultimi giorni di vita, trasmette anzi un'insolita sicurezza nell'aspetto solenne della donna.
Quest'anno, nel 2021, ricorre il Centenario dell'artista, il più importante a cui Pescara e l'Abruzzo abbiano dato i natali nel XX secolo. Un'occasione rara per rimeditare la sua opera e ricostruire attraverso il suo sguardo una delle stagioni artistiche più feconde conosciute dal nostro Paese.
Pietro si era formato nella bottega di famiglia, l'ex stabilimento cromolitografico di via Marconi, oggi sede del Museo Cascella. Il capostipite Basilio Cascella aveva trasmesso ai discendenti passione e cromosomi. Pietro e il fratello Andrea imparano a dipingere dal padre Tommaso, pittore e ceramista affermato, che, armato di tele e pennelli, porta con sé i figli, spostandosi tra il porto di Pescara e le montagne abruzzesi, perché essi imparino già da piccoli a osservare le metamorfosi della natura e tradurle in opere d'arte. Dirà lo scultore con orgoglio: «Che la nostra famiglia si guadagnasse da vivere dipingendo ci appariva del tutto naturale. Si mangiava ogni santo giorno e anche bene».
Nel 1938 avviene il trasferimento a Roma per seguire i corsi del pittore Ferruccio Ferrazzi all'Accademia di Belle Arti. Nella Capitale conosce la futura moglie, l'artista e mosaicista Anna Maria Cesarini Sforza, e frequenta la famosa Osteria dei Fratelli Menghi. Il Secondo conflitto mondiale segna una triste cesura alla nascente attività artistica di Pietro, che si trova impegnato come pittore di guerra. Nell'immediato dopoguerra scopre l'innamoramento per la materia e la sua vera vocazione esploderà a Valle Inferno, una fornace di laterizi tra l'Aurelia e il quartiere Prati di Roma, una vera fucina di sperimentazioni in cui lavora quotidianamente a fianco dei mattonari, sfornando insieme agli oggetti d'uso indispensabili alla sopravvivenza, le gigantesche sculture in ceramica di ispirazione surrealista e popolare.
«La ceramica ci permetteva allora una grande libertà. Potevamo dare sfogo all'immaginazione, con racconti di forma e di colore insieme: un'esplosione di gioia, dopo gli anni cupi, angosciati della guerra».
Era la sua rinascita, l'approdo annunciato alle sculture in pietra degli anni Sessanta. Il suo battesimo è il Monumento al martirio del popolo polacco e di altri popoli ad Auschwitz, ultimato nel 1967, lavoro che condurrà lo scultore ai massimi vertici dello scenario artistico internazionale.
«Nella scultura c'è un lato di testarda passione, di speranza». Nella assoluta convinzione di voler costruire un'arte eterna, del tutto incurante, seppure non ignaro, delle tendenze dominanti, Pietro imbocca una sua strada senza ritorno né compromessi, spregiando ogni forma di disonestà intellettuale.
Per realizzare Il Monumento di Auschwitz si misura con un'impresa poderosa: ben dieci anni di lavoro dal primo progetto del 1957, ripensamenti, rinvii e continue revisioni, culminati nel cantiere per la messa in opera del monumento, un anno e mezzo di fatiche nella steppa polacca di Oswiecim, con l'intenzione di esprimere «un silenzio dopo la tragedia».
Lanciato verso una sua idea di scultura vivente nella società degli uomini, che non conosce uguali in Italia, Pietro Cascella sembra instancabile nella sua attività monumentale che rinnova il volto di diversi centri urbani italiani; l'elenco sarebbe interminabile, più di centocinquanta opere pubbliche sparse in tutta la penisola in un crescente consenso coronato da premi e riconoscimenti a livello internazionale. L'opera più rappresentativa e innovativa è il monumento dedicato a Giuseppe Mazzini del 1974, in Piazza della Repubblica a Milano, collocato tra i mastodontici edifici dell'edilizia intensiva, e nel bel mezzo del caos di automobili e tram: un'oasi urbana che i cittadini attraversano quotidianamente come un percorso della memoria.
Pietro Barilla, l'industriale collezionista d'arte e mecenate, lo chiama a Parma per opere esemplari: Dialogo della Majella, Oracolo, Cento anni di lavoro, Fontana, Scrigno e altre.
Da Tel Aviv arriva la commissione per l'Arco della Pace, da Strasburgo per un simbolico Omaggio all'Europa.
«Pensiamo all'alto, al cielo, andremo lì, tra quelle stelle lassù, e allora ho fatto questa cosa che si chiama Volta Celeste». Così nasce l'idea di Pietro Cascella, che alla fine degli anni Ottanta viene prescelto dal Presidente Silvio Berlusconi per realizzare la Cappella Gentilizia nei giardini del parco a Villa San Martino (Arcore), un vero e proprio mausoleo di famiglia, ultimato nel 1993. La Volta Celeste è un forte richiamo alle stelle e all'immensità dell'universo, un universo che svetta per oltre sette metri di altezza nel marmo bianco proveniente dalle Alpi Apuane. Una porta scorrevole in pietra conduce al sacro ipogeo in travertino che custodirà le sepolture. Tra i bassorilievi scolpiti da Cascella, un fregio di catene scorre sulle pareti del mausoleo a simboleggiare l'importanza della famiglia.
Nei giardini della tenuta si possono ammirare altre opere di Pietro, come Fiore di Silvio, una colonna fantasiosa nello stile più tradizionale dello scultore e una suggestiva fontana monumentale.
La critica ha parlato di «tensione monumentale» in riferimento all'opera di Cascella, ma l'artista rivela che l'aggettivo «monumentale» non è propriamente indicato per la natura della sua scultura: «Che brutta pomposa parola è monumento, io lo definirei diario di immagini». È il desiderio di raccontare che muove la mente dello scultore, perché la sua poetica non è certo ornamentale, celebrativa, ma di interazione concettuale, sentimentale, empatica con chi la accosta.
«Voglio fare lo scultore, il che è già molto difficile». Pur dichiarandosi un «tradizionalista» Cascella dà vita a forme del tutto originali, che affondano le radici nella cultura ancestrale mediterranea ma si rinnovano in una plastica fantasiosa ed espressiva nel senso più profondo dell'esigenza di comunicare. Il fascino esercitato dal primordiale lo induce a lasciare alla pietra l'aspetto originario e autentico, evitando in ogni modo di usurparla, sempre fedele all'iniziale e immutabile rispetto nutrito nei confronti della materia. Un sentimento quasi palpabile che si prova entrando nel Castello della Verrucola a Massa Carrara, ultima dimora dell'artista dopo il trasferimento in Toscana negli anni Sessanta e le nuove nozze con Cordelia von den Steinen, scultrice svizzera e ora anche curatrice delle opere e della memoria del marito. Nel piccolo borgo di Fivizzano ci si immerge totalmente nel lavoro preparatorio dello scultore abruzzese: grandiosi bozzetti creati per la dimensione urbana con una forte tensione sociale e civile, gessi, bronzi e un magnifico dipinto della giovinezza. Cordelia ha impostato una ricchissima gipsoteca per raccogliere i bozzetti in gesso di Pietro, del quale sussurra con tenerezza: «Da bambino sognava di abitare in un castello».
La Versilia degli anni Sessanta e Settanta era un territorio fecondissimo per l'arte e per la scultura contemporanea. Infatti è qui che Cascella incontra artisti come Moore, Lipchitz, Calder e Marini. Con il Centenario che prenderà il via oggi, data di nascita dello scultore, l'Italia, Pescara, l'Abruzzo, hanno finalmente l'opportunità di rievocare, sistemare, dibattere, far rivivere, questo immenso patrimonio d'arte, finito un po' nell'ombra negli ultimi anni.
Nel suo ultimo discorso pubblico, la Lectio Magistralis tenuta del 2007 congedandosi dall'Accademia di Belle Arti di Carrara, l'artista aveva dichiarato: «Io vorrei dire una cosa ai giovani, di andare nei musei con animo sgombro, cercare una sintonia e un'identità con gli antichi. Perché anche i maestri antichi sono contemporanei, solo che sono vestiti con altre fogge, ma le persone rappresentate, lo spirito della pittura e della scultura che si possono trovare nei musei sono altamente attuali».
Pietro riconosce e loda con umiltà ammirevole la coralità, l'anonimato che si cela dietro le imponenti sculture ambientali, ricorda che la mente intelligente e pensante dell'artista si concretizza e vive nell'operosità delle braccia e delle mani, nel lavoro minuzioso e appassionato degli scalpellini che realizzano i capolavori che ammiriamo oggi.
È la sua mistica del lavoro, della forza, dell'impegno senza stanchezza: «Io non credo alla gente che non fatica in arte, a quelli che aggirano il problema, non prendono il toro per le corna e sostituiscono l'astuzia all'intelligenza, la trovata alla ricerca. È come se uno volesse fare il furbo quando è innamorato. Che cosa vuol dire? Fai il furbo e non ottieni nulla. L'amore è dedizione e allora hai tutto. L'arte deve essere amore viscerale».
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