Un garantista in più è sempre una bella notizia. A patto che lo sia per davvero. Ieri Luigi Di Maio, con una lettera recapitata al Foglio, ha chiesto scusa per la gogna mediatica alla quale lui e il suo Movimento, sottoposero cinque anni fa l'ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, prima condannato e poi assolto per turbativa d'asta. Quella di Di Maio è una clamorosa «inversione a u» che di fatto smentisce la storia e l'identità stessa del Movimento: il giustizialismo estremo e codino come metodo politico, l'idea davighiana che gli innocenti siano solo dei colpevoli non ancora scoperti, specialmente se sono avversari. Per anni abbiamo visto le danze macabre dei pentastellati al primo tintinnare delle manette, le urla di giubilo appena partiva un avviso di garanzia. La violenza politica dei grillini contro Uggetti non era un'eccezione, ma la regola. E condannare nella pubblica piazza un innocente significa giocare con la sua vita. La gogna fino a ieri è stata un sistema scientifico di delegittimazione del nemico e temiamo che più di un Cinque Stelle si dissocerà dal ministro degli Esteri. Per questo il Di Maio che si fa garantista sembra un po'un piromane redento che bussa alla caserma dei pompieri per arruolarsi. È benvenuto, ma guardato con un certo sospetto.
Dunque benissimo il mea culpa nei confronti dell'ex primo cittadino del Pd, ma dopo dieci anni di squadrismo politico-giudiziario la lista delle persone con le quali i Cinque Stelle dovrebbero scusarsi è chilometrica. E non riguarda solo esponenti del Partito Democratico, con il quale i grillini si apprestano a correre insieme alle prossime elezioni amministrative, ma riguarda tutti: da Berlusconi a Renzi, passando per la Lega e Fratelli d'Italia.
Meglio tardi che mai, ora Di Maio deve riempire di significato le sue pubbliche scuse, passando dalle parole ai fatti, sgombrando il campo da ogni sospetto politico sulla sua conversione (vedi i guai giudiziari di Grillo junior e dei sindaci del Movimento). I Cinque Stelle sono il primo partito in Parlamento e sono al governo, il miglior mea culpa è solo uno: sbloccare la riforma della Giustizia. Subito. Allora capiremo che non sono soltanto parole.
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