Agnelli, che pena. La caduta degli dèi torinesi, o forse newyorchesi e parigini, non ha nulla di tragico, nessun urlo di Munch, piuttosto assistiamo allo scivolamento mediocre nel fruscio di denari occultati. Nulla ricorda in questa decadenza i picchi di dolore e solitudine che indussero il mite Edoardo, primogenito di Gianni, trattato come inutile ingombro, a gettarsi da un cavalcavia vicino a Cuneo.
Il crepuscolo di questa stirpe si segnala per l'ostinazione dell'odio persino più abbondante della grana. Si sono denunciati tutti, padre madre e figlio, non è stato querelato solo lo Spirito Santo perché impegnato in Vaticano. Il corpo esausto della nonna è stato esaminato nei suoi spostamenti analizzando il GPS, per stabilire la tempistica fiscale ed ereditaria dell'agonia. Nessuna decenza.
Massì. Giusto così. La decadenza della famiglia Agnelli è in rima con il famoso stile della casa. Mi mette tristezza comunque. Ma non perché mi commuova la sorte dei rampolli dell'Avvocato, o il frantumarsi della reputazione di una stirpe onnipotente sulla quale sì sarebbe valsa la pena fare un referendum, altro che i Savoia, ma per la stupidità con cui gli italiani ne hanno ingrassato il patrimonio e nutrito la regalità sulla base di una rendita chiamata Fiat.
I tre fratelli Elkann (John, Lapo e Ginevra) che pare abbiano giocato hanno scritto i giudici del riesame l'altro ieri - a spostare l'amata nonna Marella come spalloni dalla Svizzera all'Italia, per frodare fisco e congiunti, alla fine ci rimetteranno le briciole, ma reggeranno il colpo e così il resto del parentorum dotato della tipica erre: come diceva a proposito del suo regno l'imperatore Carlo V, sul denaro degli Agnelli non tramonta mai il sole. Nessuno oserà mandare a monte il castello finanziario su cui ci sia stata frode o meno si regge Stellantis, che gli Elkann si spartiscono con i francesi avendo (...)
(...) loro venduto la Fiat. Si modificheranno gli equilibri interni, ma una certa rabbia mi porta a dire che quella roba lì dovrebbe essere nostra, degli italiani intendo.
Altro che commozione: la pena è per noi stessi, mescolata a rabbia e delusione. Come è stato possibile che un'Italia indebitata fino al collo abbia potuto trasferire per più di un secolo - ogni anno, mese, giorno - bastimenti carichi di lira e poi di euro sui conti della Fiat, e da lì alle dimore sulle colline torinesi, e poi via, all'estero? Che complicità ci sono state per consentire una impunità di così lungo periodo? Anche i dissensi, che pure ci sono stati, non hanno mai generato un Jan Palach o un bonzo buddista pronti a bruciarsi vivi per denunciare lo scempio. Il consenso generale è certo passato dalla categoria cui appartengo. Il dominio esercitato sui mass media dalla Fiat è stato (quasi) totalitario. Inducendo grandi e piccole firme all'uso della tastiera a mo' di mandolino o di corno inglese quando l'Avvocato era in vita, sostituito dal violino tzigano del rimpianto post mortem.
Sarebbe il caso ci si ricordasse, e si trovasse il modo di invertire il flusso della trasfusione di sangue a getto continuo, che credo abbia ispirato i progettisti di oleodotti transcontinentali, i cui donatori sono sempre stati gli italiani costantemente chiamati a porgere il braccio per dare più colorito alle guance candide e al pallido vello degli Agnelli, gli unici da noi mai sacrificati per la Pasqua. La Fiat si nutriva si scusi la nota patetica - con i salvadanai infranti dei padri di famiglia, ma non bastavano mai a ripianare i passivi. Che chissà come si trasformavano in generose elargizioni alla famigliona ricca di mungitori della vacca italica. Consapevole che i ricchi hanno l'esigenza del superfluo, gli amministratori hanno fatto sì che perfino negli anni più magri il denaro da dividere non sia mai mancato, e ciò ha suscitato un interrogativo rimasto privo di risposta soddisfacente: come fa un'azienda in crisi ad avanzare risorse per i padroni?
Per circa un secolo, popolino e popolone hanno vissuto convinti che il destino dell'Italia coincidesse con quello della Fiat. Un luogo comune espresso nella formula «Ciò che va bene per la Fiat va bene per l'Italia», di cui l'inventore pro domo sua è stato proprio Gianni Agnelli, che poi in una intervista con Gianni Minoli ha reso più efficace il concetto: «Quello che è male per Torino è sempre male per l'Italia».
Povera Italia, altro
che poveri Agnelli. Di costoro solo gli antenati sono stati imprenditori (ai tempi della Belle Époque e della Grande Guerra, che per loro è stata la stessa cosa) poi sono venuti i prenditori. Che ora litigano sul malloppo.
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