La mancata zona rossa, il virus che dilaga, Piacenza piegata da un tasso di contagi per abitanti superiore anche a Bergamo. Alla fine il commissario all’emergenza coronavirus dell’Emilia Romagna, Sergio Venturi, deve ammettere quello che in molti pensavano da tempo: insieme a Parma, la provincia piacentina ha “affrontato l'ondata di piena senza avere purtroppo ancora tutte le misure di distanziamento e le ulteriori misure di blocchi produttivi che sono stati progressivamente stabiliti". Tradotto: Piacenza paga un prezzo così alto di infetti perché non è stata inserita sin da subito nei provvedimenti più restrittivi anti Covid come la vicinissima Codogno. Cioè non è stata sottoposta a quella "zona rossa" che oggi si crede fosse necessario imporre anche ad Alzano Lombardo e in tutta la Val Seriana.
La “strage silenziosa” che si abbattuta sul Piacentino, raccontata ieri dal Giornale.it, entra dunque nel dibattito politico mai sopito su chi avrebbe dovuto adottare disposizioni feree per le zone più colpite d’Italia. La storia è ormai nota e si svolge nei primi giorni di marzo. Di fronte alle infezioni continue a Nembro, la Regione Lombardia chiede un parere al comitato scientifico dell’Iss che dà responso positivo. In Val Seriana vengono inviati i carabinieri, tutto lascia presagire l'istituzione della zona rossa. Poi qualcosa si intoppa e l'8 marzo Giuseppe Conte allarga a tutta la Lombardia e ad altre province le misure prima riservate ai comuni nel Lodigiano. Negli stessi giorni anche Piacenza si trova al centro di una epidemia che fatica a controllare. Il sindaco emana alcune ordinanze, chiude i bar e i centri diurni per anziani o disabili. La Regione, insieme a Veneto, Piemonte e Friuli, lascia gli studenti a casa e sbarra i musei. Ma non prende iniziative esclusive per i piacentini, che si trovano nella tragica situazione di essere a due passi dall'epicentro del contagio, Codogno, senza avere le stesse restrizioni. Un errore? Forse. Almeno stando a quanto affermato ieri dal commissario Venturi nella consueta diretta per fare il punto dell'epidemia. "Piacenza e Parma sono le due province che hanno avuto benefici più ritardati rispetto al lockdown in Emilia Romagna e nazionale - ha detto - Sono le due province che hanno affrontato l’ondata di piena senza avere purtroppo ancora tutte le misure di distanziamento e le ulteriori misure di blocchi produttivi che sono stati progressivamente stabiliti, per questo oggi scontano le conseguenze più nefaste. Lì il virus è arrivato con una maggiore prepotenza e con un maggior grado di infettività rispetto alle altre province della regione".
Resta ora una domanda: quello di Venturi è un "mea culpa" o una presa di coscienza che forse il governo avrebbe potuto valutare diversamente l’adozione delle zone rosse? Molto si è discusso infatti su chi spettasse l'onere di quella scelta, a Piacenza come a Bergamo. Stefano Bonaccini a metà marzo ha chiuso Medicina (Bologna) ma non l’ha fatto nel Piacentino. Perché? A dire il vero neppure il governo ha ritenuto necessario intervenire, nonostante in provincia oggi si contino oltre 3mila contagi e più di 700 morti certificati Covid-19. "Lo avevo capito sin da subito che non aveva senso tenere loro chiusi e noi aperti", ci spiegava Rino Russotto, presidente uscente della sezione locale dell'Associazione dei carabinieri. "I confini regionali non fermano mica un virus minuscolo. E tra noi e Codogno ci sono pochi minuti di strada".
Appurato dunque che, come affermato da Venturi, le misure di distanziamento più rigide sarebbero servite, i ragionamenti che ne conseguono sono due: o la Regione avrebbe potuto chiudere la città, e non l’ha fatto; oppure quel potere era stato rivendicato dal governo, che ha preferito creare prima le zone “arancioni” e poi trasformare l'Italia intera in un’unica area “protetta”. Un po' come è successo a Nembro e Alzano Lombardo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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