L’isola color verde speranza

Viaggio a Gorgona, uno scoglio affascinante sperso nell’arcipelago toscano. E’ un penitenziario. Ed è visitabile solo due volte a settimana previa autorizzazione. Ma chi ci va scopre un mondo meraviglioso, tra detenuti vignaioli e la signora Lucia, 96 anni, mai mossasi da lì. E grazie a Frescobaldi, che da qualche anno vi producono un vino, anche un modello da imitare

L’isola color verde speranza

E l’utopia dei Frescobaldi, che vi producono un vino lontano da ogni Gorgona è uno scoglio in mezzo al mare, i fiori spalancati al sole, le grida stridule e ritmate dei gabbiani, quella luce smagliante che fa risaltare il verde dell’isola, della macchia mediterranea, dei pini marittimi e di Aleppo. Una canoa gialla si muova lenta sul mare blu, le vigne digradano ad anfiteatro fino chiesetta immacolata. All’arrivo nel porticciolo si para agli occhi un paesello da presepe con le case colorate, a metà tra Burano e Camogli (che una buona parte nella storia dell’isola dell’Arcipelago toscano ce l’ha, come vedremo).

Sembra d’essere in una gita di piacere, un gruppo vacanza internazionale che si sdilinquisce alla vista della Grande Bellezza tipica di quei piccoli angoli d’Italia che richiamano da ogni dove turisti pronti alla meraviglia. Se non fosse per quella scritta ispirazionale che giganteggia, su un muretto azzurro cielo. È il, molto poco praticato, articolo 27 della Costituzione: Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Già perché Gorgona è, dal 1869, un’isola penitenziario, l’ultima attiva in Italia e l’unica in Europa. Un tempo c’erano 15 ettari di vigneti terrazzati, a coltivarli dopo i monaci, che erano qui dal Medioevo e fuggirono a causa delle escursioni dei Saraceni, furono chiamate dal Granduca di Toscana alcune famiglie della Garfagnana, perché esperte di quell’arte di coltivare i pendii, appunto. Ma l’attività principale in realtà era la pesca delle acciughe di Gorgona, grosse e rinomatissime, tanto che per pescarle, visto che i gorgonesi non eran pratici, arrivavano da Camogli, in Liguria. Ma la pesca influenzava anche il paese, con i pini di Aleppo piantati perché con la corteccia si coloravano le reti e le cantine affittate e adibite alla salatura.

Oggi i residenti civili non impiegati nel carcere dell’isola sono 11, ma solo una, Luisa, 96 anni, ci abita permanentemente. L’andiamo a trovare nella sua bella casetta del presepe con i centrini e le fotografie e il camino ad angolo, e una finestrella dalla quale si vede il mare e chi attracca e riparte dal porto. E viene in mente quel detto che gira, che a Gorgona si piange quando si arriva, ma si piange anche quando si riparte. Ci accompagna Nicola, uno degli 11, tornato per votare (sì, c’è anche un seggio elettorale, nella vecchia scuola ormai abbandonata). Lei nata sull’isola, andata a vivere a Firenze quando s’è sposata ha voluto tornare perché è questa la sua casa. I detenuti la chiamano zia. Vengono a pulirle casa, uno, che ha ormai scontato la pena, la chiama sempre per sapere come sta. Una grande famiglia non convenzionale, questa è la vita sull’isola.

Riprendere a far vino nell’isola non è stata una passeggiata. Il direttore di allora, Carlo Mazzerbo, ideatore del progetto e dell’idea di far lavorare i detenuti a contatto con la natura (sono rinchiusi solo di notte) imparando un mestiere che potessero spendersi una volta liberi, per riattivare quelle vigne (ormai ne era rimasto solo un ettaro) mandò lettere a tutte le aziende vinicole e nessuno rispose.

Un lavoro lontano dai lustri e cristalli ed etichette d’artista e opere site specific della viticultura d’oggi. Poi i Frescobaldi decisero di accettare la sfida.

“La prima volta che entri dentro ti misurano la febbre per capire dove puoi arrivare. Nel carcere ci si divide per nazionalità, per questo i detenuti scelti per la vigna sono sempre di nazionalità diverse: al momento ci sono un italiano, un rumeno e un tunisino” racconta Federico Falossi, che ha seguito per Frescobaldi il progetto fin dall’inizio. La cosa più dura, si capisce, non è stato riattivare una vigna semiabbandonata e soffocata dalla vegetazione, ma l’aspetto psicologico e dei rapporti interpersonali.

È un progetto costoso, quello di Gorgona: 80 detenuti (ci sarebbe posto per un’altra decina), una specie di carcere-premio, di isola felice. Qui si arriva, su richiesta, a fine pena e tutti lavorano: c’è il forno, gli immobili da sistemare, le stalle e l’orto. E tutti sono pagati, poco, dallo Stato per il loro lavoro. La vigna impiega tre detenuti, a rotazione, assunti da Frescobaldi con contratto regolare (sono pagati quindi tre volte più degli altri). Altri due o tre si aggiungono durante la vendemmia.

Tutti imparano un mestiere o si perfezionano, così una volta usciti sarà più facile trovare un lavoro ed evitare di ricadere nell’illegalità. “Qui la recidiva è praticamente annullata” dice il direttore del carcere.

È proprio questo il senso del progetto e della scritta che accoglie ogni visitatore, che sia un parente o un giornalista, come noi invitato alla degustazione dell’annata in corso (che avviene sempre in anteprima sull’isola) o un semplice turista che partecipa al tour organizzato dal Parco dell’Arcipelago Toscano (due giorni a settimana, su richiesta e naturalmente presentando la dovuta documentazione, non siamo a Disneyland). Quello di un esempio, di uno stimolo a far diventare il carcere qualcosa di diverso dalla realtà da incubo della gran parte delle sovraffollate carceri italiche.

Un senso che quest’anno, alla presentazione dell’annata 2023 del Gorgona Bianco (la dodicesima prodotta), è stato ulteriormente sottolineato dalla presenza di una delegazione di detenuti da “uno dei migliori istituti penitenziari d’Italia”, come è stato definito, ovvero quello con la più bassa recidiva: Bollate. Hanno preparato il pranzo con lo staff del ristorante interno InGalera, che orgogliosamente si autodefinisce “il ristorante del carcere più gourmet d'Italia”.

Perché, come ha sottolineato la responsabile e presidente della cooperativa Abc La sapienza in tavola, Silvia Polleri, “i progetti di reinserimento si possono fare anche in una grigia città come Milano, non solo in questa meravigliosa isola”.

L’augurio e il senso di tutto ciò, in fondo, è proprio quello.

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