Addio (brutte) megalopoli Il futuro sarà più umano

da Venezia
F in dalle sue origini la Biennale di Architettura è sempre stata un mix di linguaggi e forme, forse perché la definizione stessa è quanto mai difficile e sfuggente. Se si trattasse soltanto di una sfilza di progetti e plastici il gran pubblico non ne sarebbe attratto e invece l'appuntamento veneziano, giunto alla XIII edizione, si apre ancora una volta all'insegna di un tema provocatorio, attuale e onnicomprensivo, che non mancherà di fare cassetta. Merito di David Chipperfield, ideatore di Common Ground, che ha condiviso con Paolo Baratta lo snodo attraverso due percorsi complementari: «architettura come luogo del dialogo tra le culture e non solo creazioni individuali; architettura come tentativo di rapporto con la società civile e la politica». È proprio Baratta a spiegarcene il senso non senza una nota polemica: abbiamo la mostra d'architettura più importante al mondo eppure siamo il Paese in cui meno si progetta e si costruisce. Da Venezia uno stimolo a cambiare strada.
Common Ground, ovvero l'ibrido necessario, si apre ai Giardini con la grande installazione Politics of Bricolage di Alison Crawshaw dal gusto vintage, che sembra guardare un po' nostalgicamente al passato, scegliendo materiali caldi e poveri che rimandano alla terra e quasi rigettano l'high tech dei decenni successivi. Intervento che dà il tono alla prima parte della mostra, seria, rigorosa, talora didascalica e un po' frenata ma comunque responsabile.
Chipperfield include nella fitta rete di inviti tutte le archistar più note (tra queste Alvaro Siza Vieira Leone d'oro 2012, Renzo Piano, Peter Zumthor, Herzog & de Meuron...) utilizzandole magari come ospiti di progetti articolati che si dipanano, con ordine e chiarezza espositiva, in sale personali dove l'opera è ben comunicata da didascalie esplicative. Coprotagonista di tale vicenda è l'arte contemporanea, soprattutto se imparentata con la fotografia che dell'architettura rappresenta la testimonianza più realistica. Vera e propria specialità tedesca è l'inquadratura insistita su condomini di periferia, immancabili anche quest'anno, severi e noiosi, oppure gli sguardi in bianco e nero anni '70, il ritorno del minimal cinetico alla milanese, a sottolineare il fatto che anche arte e architettura, insieme a musica e moda, avvertono impellente il bisogno di passato. Persino un grande designer come Jasper Morrison sottolinea la propria indifferenza verso la tecnologia e, di contro, la voglia di riscoprire un artigianato semplice e terragno, dominato dal legno a vista, colore rappresentativo di questa Biennale.
Altro che file o memoria elettronica: ritorna la carta delle storiche riviste italiane e con loro l'ossessione archivistica. Né poteva mancare l'approccio politico al tema, talora ideologico, in un'idea però superata di coinvolgere tutte le zone creative attraverso testimonial di lusso. Tra le sale più curiose del Padiglione Centrale quella degli olandesi Crimson che ripercorrono il fallimento dell'utopia umanitaria sfociata suo malgrado nelle odierne, orride, New Town.
Più spettacolare, come di consueto, l'Arsenale, dove l'architettura diventa vera e propria installazione. Geniale l'interpretazione del tema da parte di Norman Foster dentro una sala buia in cui si sovrappongono i nomi dei protagonisti in secoli di ricerca e lo spazio urbano metropolitano, luogo di tensioni e scontri sociali dove l'architettura non sempre riesce a fungere da intermediario. Nonostante la moda di guardare al paesaggio naturale, Foster ci ricorda che la città è sempre caos, vita. Altrove si ipotizzano spazi utopici determinati dal passaggio migratorio di uomini (Ruta del Peregrino, nove architetti messicani con l'artista cinese Ai Weiwei). Forte il contrasto tra la rilettura della Guernica di Picasso che oggi con Noero Architects riattualizza il flagello dell'Aids in Africa e i giocattoloni barocchi di Zaha Hadid, malata di gigantismo ipertrofico e ormai vittima di uno stile che cozza contro le ristrettezze economiche. In crescendo il finale: Anupama Kundoo ricostruisce la sua casa in India con gli stessi materiali, mentre Urban Think Thank allestisce un bar texmex dove consumare un pasto diventa un atto di condivisione sociale.
Ma Common Ground si pone la questione architettura in tempo di crisi? La risposta sembra essere no, perché a Venezia vanno in scena le intuizioni, non gli eventuali prodotti finali. Su questa strada si dirige invece il Padiglione Italia, curato da Luca Zevi. Se il nume tutelare di un costruire responsabile e lungimirante, che produca economia, gusto e cultura, è riconducibile alla figura di Adriano Olivetti, Zevi non si arrende al malessere di un presente critico ipotizzando nuove sensibilità imprenditoriali che tengano conto del paesaggio e della storia. «È un fenomeno nuovo - spiega - determinato da una piccola e media industria legata ad un territorio policentrico e non metropolitano che si rappresenta attraverso l'architettura. Può esere l'avvio di un nuovo Made in Italy, in parte agricolo, che inglobi l'esperienza necessaria della Green Economy dove il capitalismo si pone la coscienza del limite».

Ha così interpellato Brunello Cucinelli, Guzzini, Renzo Rosso e la Bracco, tra gli altri, per un'ipotesi intrigante, dal taglio sociologico, che finalmente pone un traguardo raggiungibile, se rincorso con intelligenza.

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