Lo scontro, negli Stati Uniti, è razziale, non è politico. O meglio: è uno scontro atavico, tanto antico da essere intriso nelle viscere di ogni cittadino, da condizionare la politica e a tracimare nello scontro tra repubblicani e democratici. In Questa strana e incontenibile stagione (Sur), scritto e pubblicato in piena pandemia, Zadie Smith centra appieno il problema puntando il dito contro il virus che sta appestando gli Stati Uniti, ovvero quello del disprezzo che spinge "chi guarda la siepe del proprio giardino" a vedere "un popolo di appestati: appestati dalla povertà, prima e più di ogni altra cosa". Un virus che "si annida saldamente sia nei cuori dei repubblicani che dei democratici". La differenza è che questi ultimi stanno usando politicamente questo problema per avvelenare la campagna elettorale per le presidenziali di novembre. "Se il virus e le disuguaglianze che crea dovessero mai lasciarci, negli Stati Uniti certi eccessi si attenuerebbero - spiega la scrittrice inglese - non scomparirebbe del tutto (nessun paese sulla faccia della terra può sostenere di non averne) ma certe cose non verrebbero più considerate normali".
Un male che nasce da lontano
"I cant't breath". L'urlo strozzato in gola, gli occhi fuori dalle orbite e quelle immagine rimandate in loop come un disco incantato. È morto così George Floyd, all'incrocio tra la 38ª e la Chicago Avenue a Minneapolis. È morto soffocato, sotto il peso di un poliziotto. "Non riesco a respirare, per favore - urlava - il ginocchio al collo, non riesco a respirare". Era il 25 maggio e il presidente Donald Trump si trovava invischiato nella peggiore emergenza sanitaria dell'ultimo secolo. Non poteva sapere che da lì a poco avrebbe dovuto gestire un'altra emergenza, ben più lacerante. Non appena l'Hennepin County Medical Center, l'ospedale dove l'afroamericano venne trasportato d'urgenza dopo aver perso conoscenza, ne decretò il decesso e le immagini dell'arresto iniziarono a essere condivise sui social e a fare il giro del mondo, proteste e tumulti dilagarono in tutto il Paese. Adesso è una guerra fratricida. In strada i militanti dei Black lives matter e degli Antifa si confondono tra i manifestanti anti Trump così come la destra più estrema e radicale rimpolpa i cortei a sostegno del tycoon. E il sangue non smette di scorrere. Lo scorso 29 luglio, a Portland, un supporter del presidente, il 39enne Aaron J. Danielson, è stato ammazzato con un colpo sparato a bruciapelo.
È l'odio di un popolo che sembra non conoscere requie e che, con l'effetto ciclico di un'onda, si trova ad esserne nuovamente invischiato. È lo stesso odio di cui parla, per esempio, James Ellroy nel suo ultimo, bellissimo romanzo, Questa tempesta (Einaudi). Forte della convizione che, come ebbe a dire Benito Mussolini, "solo il sangue muove le ruote della storia" (parole riportate dall'autore stesso in testa al libro), l'opera, che dopo Perfidia (Einaudi) è il secondo capitolo della nuova tetralogia di Los Angeles, getta il lettore in un girone buio quando, all'indomani dell'attacco a Pearl Harbor, gli Stati Uniti si sono scoperti più deboli e hanno dato il via ai violentissimi rastrellamenti contro i cittadini giapponesi (da lì alla fine del conflitto ne verranno arrestati ben 100mila). Sono settimane incandescenti dove l'odio dilaga nelle strade e colpisce qualsiasi etnia. È una guerra per bande che non risparmia nessuno. Ellroy è bravissimo a descriverle, senza fare sconti a nessuno, una giungla d'odio e violenza in cui si muovo sanguinari simpatizzanti del führer, incendiari comunisti che sognano il trionfo di Stalin, sinarquisti messicani che brigano contro il presidente Roosvelt. E ancora: il rancore dei bianchi contro gli afro, gli scontri tra la comunità cinese e quella giapponese, il traffico dei clandestini dal Centro America. Con sfumature molto diverse, certe scene raccontate dall'autore di American Tabloid e LA Confidential riecheggiano le violenze che vediamo sui media in questi mesi.
Un'America profondamente divisa
In una intervista rilasciata a Vice nel 2010, quando aveva appena dato alle stampe Caccia alle donne (Bompiani), Ellroy aveva fatto un'analisi disincantata di se stesso e di quello che, visto nello specchio del politicamente corretto, non deve esistere. "Sono un americano religioso, eterosessuale di destra, sembra quasi che sia nato in un'altra epoca. (...) Sono un cristiano nazionalista, militarista e capitalista", ha ammesso sapendo che tutto questo gli ha spesso creato problemi. "La gente pensa che queste mie posizioni siano choccanti - ha tagliato corto - non sento il bisogno di giustificare le mie opinioni". Non per tutti è così. Perché se da una parte, come sottolineato da Zadie Smith, l'America è dilaniata dal virus del disprezzo, dall'altra rischia di essere fagocitata da un altro virus: quello della censura imposta dal politically correct. E qui veniamo a un altro romanzo Tanti piccoli fuochi di Celeste Ng (Bollati Boringhieri). Pubblicato nel 2017 torna ora negli scaffali delle librerie grazie alla fortunata serie televisiva interpretata dalle bravissime Reese Witherspoon e Kerry Washington e distribuita dai primi di giugno da Amazon.
Facciamo un salto alla fine degli anni Novanta, quando il mito dell'America riplende ancora (a torto o a ragione) in tutto il mondo. Siamo alle porte di Cleveland. Shaker Heights è un quartiere chiuso dove vive l'upper class democratica. Famiglie da cartolina, buoniste, impegnate nel sociale, devote alle regole che si sono date per mandare avanti la propria comunità e proteggerla dai propri mali. Elena Richardson ne è l'emblema: bianca, ricca, redattrice del quotidiano locale, moglie di uno stimato avvocato, madre di quattro figli (due maschi e due femmine, of course) e vittima nonché artefice di quelle stesse diaboliche correzioni stigmatizzate da Jonathan Franzen vent'anni fa. Sull'altro lato della strada c'è la sua antitesi: Mia Warren è una madre single, nera, artista a tempo perso che si mantiene facendo lavori saltuari e soprattutto senza fissa dimora. Quando i due mondi si incontrano, la Richardson non può che dimostrarsi caritatevole perché lei, da giovane, ha "marciato con il dottor King" e ha difeso i diritti delle donne. Così, prima le offre un contratto d'affitto stracciato, poi le dà un lavoro. Ed è qui che si infrange il conformismo dem facendo divampare tanti piccoli fuochi che finiranno per dare alle fiamme l'intera dimora dei Richardson.
Il rischio americano
Shaker Heights è un topos. Il paradigma di un'America dilaniata che continua a lottare contro se stessa. Gli effetti sono "drogati" da una visione di parte: una lettura buonista che non fa sconti alla borghesia bianca ma che la condanna a prescindere. Così, sebbene Mia Worren abbia cresciuto la figlia per strada, Pearl è l'unica responsabile e fa impallidire i quattro figli di Elena. Allo stesso modo gli errori di Mia vengono, in un certo qual modo, scusati dalle circostanze mentre quelli di Elena costantemente condannati. Non che quest'ultima non sia da biasimare (in primis l'incapacità di accogliere le scelte della quarta figlia). Eppure... per tutto il romanzo si fa portatrice di alcuni valori che la società occidentale dovrebbe continuare a difendere e che, invece, i sensi di colpa dei democratici continuano a cedere in uno scontro che, anno dopo anno, non sta portando da nessuna parte se non a indebolire tutti quanti. Per la Smith, per esempio, la domanda che gli Stati Uniti dovrebbero porsi è la seguente: "Esiste un desiderio abbastanza forte di un'America diversa?". Perché questo avvenga, a suo dire, la classe dirigente deve prendere coscienza del fatto che "il virus non infetta solo gli individui di intere strutture di potere", ma piega "tutte le persone economicamente sfruttate, a prescindere dalla razza".
In realtà, quello che manca agli Stati Uniti (e di riflesso a Shaker Heights) è la capacità di unire i cittadini, indipendentemente dal colore della pelle, in vista di un obiettivo comune e condiviso. È quello che hanno fatto tutti gli imperi, da quello romano a quello britannico, e che ha ben descritto Rutilio Namaziano nel suo Ritorno: "Desti una patria ai popoli / dispersi in cento luoghi: / furon ventura ai barbari / le tue vittorie e i gioghi: / ché del tuo dritto ai sudditi / mentre il consorzio appresti, / di tutto il mondo una città facesti".
Questo vulnus, questa ferita, si riaffaccia non appena appaiono nuove difficoltà. Le strade distrutte ed incendiate degli ultimi mesi lo rappresentano plasticamente. Tanti piccoli fuochi, che da decenni bruciano un impero dimezzato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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