Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco partecipano, domani, al Festival è Storia di Gorizia (Tenda Erodoto, ore 18 e 30). Con loro Verlyn Flieger e John Garth. Tema del dibattito sarà: «Dalla terra di nessuno alla Terra di Mezzo. J.R.R. Tolkien e la Grande Guerra». De Turris si occupa con Sebastiano Fusco dell'oper di Tolkien dal 1969. Insieme hanno curato l'edizione italiana de La caduta di Artù (Bompiani, 2013).
Un sondaggio effettuato nel 1999 tra i lettori britannici su chi fosse il più significativo scrittore di lingua inglese del Novecento, diede un risultato per molti sorprendente: John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973). Che un autore di narrativa «fantastica» abbia prevalso su una miriade di nomi oggettivamente più noti, la dice lunga non solo sulla fama e la popolarità del professore di Oxford, ma soprattutto su quanto la sua opera - da Lo hobbit a Il Signore degli Anelli a Il Silmarillion - abbia inciso sull'immaginario collettivo del XX secolo e lo abbia influenzato in modo che dire indelebile non è esagerato.
Se ne deve dedurre che la sua opera complessiva non è soltanto una vicenda di semplice avventura fantastica, come ne esistono a migliaia, che non è soltanto una «favola per adulti», il divertissement di uno stravagante e svagato filologo oxoniense. Anche perché a 60 anni esatti dalla pubblicazione del Signore degli Anelli le traduzioni in tutto il mondo sono state decine e decine nelle lingue più impensate per oltre 80 milioni di copie, di cui oltre un milione in Italia. La conclusione è che le vicende «fantastiche» scaturite dall'immaginazione di Tolkien hanno un senso e un valore per ogni tipo di cultura e non solo per quella occidentale, in quanto utilizzano simboli universali. Il successo della seconda trilogia del regista Peter Jackson, tratta da Lo Hobbit e altri scritti del professore, sta ancora una volta a dimostrarlo, anche se la sua efficacia è inferiore a quella del Signore degli Anelli di dieci anni fa. A differenza di tanti osannati e conclamati best seller (tanto per citarne uno, Il Codice da Vinci) che come si suol dire lasciano il tempo che trovano e nessuna traccia se non quella di un boom di vendite, l'opera di Tolkien complessivamente e Il Signore degli Anelli in particolare è un long seller, si vende sempre, attira sempre lettori di generazioni successive senza una particolare pubblicità. Insomma, è un «classico».
Tolkien ha spiegato più volte ciò che lo spinse a cimentarsi con questa prova narrativa: da un lato, il desiderio di dare uno spessore concreto alle genti che parlavano i linguaggi che lui inventava sin da ragazzino; inoltre, la volontà di fornire al suo Paese, la Gran Bretagna, una mitologia. Creò così una narrazione epica sulla falsariga delle saghe leggendarie e delle storie cavalleresche, adatta all'uomo del XX secolo e, cosa straordinaria, non soltanto di cultura occidentale. Quella che è stata anche definita «la fiaba più lunga del mondo». E proprio come in una narrazione tradizionale, di un folklore di per sé immaginario ma nel cui interno sono confluite tutte le sue competenze e conoscenze di filologo, mitologo e appassionato delle leggende europee, in essa si può trovare di tutto e può essere analizzata in molti modi e secondo diversi metodi critici, uno dei quali non esclude l'altro, anche se alcuni di essi possono fornire una analisi più completa e approfondita delle fonti che sono dietro all'immaginario tolkieniano, spiegando da dove nascano certe sue figure, personaggi, creature, luoghi, addirittura nomi. Sotto questo aspetto, la sua opera è una miniera.
C'è chi, ad esempio, ha indagato sulle fonti letterarie dei suoi libri, a cominciare dal mondo medievaleggiante ma immaginario di William Morris, autore quasi sconosciuto in Italia; c'è chi ha indagato sugli aspetti linguistici e sulle fonti filologiche; c'è chi ha sviscerato le fonti mitologiche, leggendarie e simboliche, e chi invece quelle storiche. E c'è chi si è rifatto a quanto delle sue esperienze di vita può averne influenzato gli scritti, cercando di rintracciarle nelle sue pagine. Ad esempio, l'esperienza della prima guerra mondiale di cui ricorre quest'anno il centenario dell'inizio.
Tolkien venne inviato sul fronte francese della Somme nel giugno 1916, quando aveva dunque 26 anni, inquadrato nei Fucilieri del Lancashire. Partecipò alla terribile battaglia che ebbe inizio l'1 luglio fino al 27 ottobre, quando si ammalò della «febbre delle trincee», venne ricoverato in ospedale e l'8 novembre tornò in patria. Nemmeno quattro mesi, che tuttavia rimarranno impressi in modo indelebile nella sua memoria e incisero sulla sua immaginazione. Non solo sulla Somme erano morti due suoi carissimi amici e sodali, ma quel che lì vide fu di certo trasfigurato in alcune parti del Signore degli Anelli. Che inizialmente si sarebbe dovuto intitolare The War of the Ring, «La Guerra dell'Anello», il che appare significativo, dato che fa pensare alla sua giovanile e traumatica esperienza. Se si pensa poi alla descrizione di Mordor e della landa che Frodo e Sam attraversano faticosamente, molte similitudini possono venire in mente: l'aldilà oscuro e la terra dei morti della mitologia classica; le terre imputridite dall'inquinamento industriale contro il quale lo scrittore lanciava le sue invettive quando viveva a Oxford; e infine la «no man's land» di fronte alle trincee inglesi e francesi che le divideva da quelle tedesche: crateri di bombe, fumi delle esplosioni, filo spinato, esalazioni di gas, pozze d'acqua infetta, cadaveri, ruderi di case sventrate dalle cannonate. Uno scenario apocalittico rimasto impresso nella mente e nel cuore, che si riverbera nella sua scrittura.
Come tanti letterati presenti su tutti i fronti, Tolkien affrontò la disumana «guerra di materiali» come poi la definì un soldato che forse Tolkien ebbe di fronte, oltre i
reticolati, Ernst Jünger. Un conflitto ancor più disumano della «guerra di uomini» come era sempre stata sino a quel momento... Dove la «macchina» senz'anima ha il predominio e gli esseri viventi sono nulla, in sua balìa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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