La cultura di Stato? Uccide la cultura

Le sovvenzioni pubbliche spingono al conformismo, truccano il mercato, premiano i peggiori

La cultura di Stato? Uccide la cultura

Se la Germania soffre di un'offerta culturale «drogata» dall'intervento pubblico, la stessa malattia può essere diagnosticata anche all'Italia: 3.600 musei, 12.400 biblioteche, 10.000 mostre inaugurate ogni anno, più di 1.000 soggetti operanti nel mondo dello spettacolo che beneficiano di una sovvenzione statale. Come recita il sottotitolo originale di Kulturinfarkt, «troppo di tutto». Ma il problema non è solo di quantità, riguarda anche la qualità: «ovunque le stesse cose». Una produzione culturale caratterizzata da scarsa innovazione a da una marcata «conformità dal sapore burocratico», come scrivono in questo pamphlet (edito da Marsilio) Dieter Haselbach, Armin Klein, Pius Knüsel e Stephan Opitz.
I mali culturali della Germania e dell'Italia sono in buona parte comuni e muovono dalla volontà di garantire la «cultura per tutti»: moltiplicare l'offerta culturale per portarla fin sotto casa. Senza interrogarsi su quale cultura e sulle conseguenze di tale impostazione. Questa offerta rappresenta un costo. L'Europa possiede il patrimonio culturale più costoso al mondo, in nome di una miriade di finalità attribuite alla cultura e di un sotteso «diritto di fare arte». Non a caso i sussidi pubblici sono rivolti alla produzione e alle istituzioni culturali: sovvenzioni alla produzione di film, ai teatri, ecc. L'assunto teorico (paradossale) è che l'arte può essere libera solo se finanziata dallo Stato; senza l'intervento pubblico sarebbe il mercato a decretarne il successo o l'insuccesso, ma l'arte - si pensa - non può essere «asservita al gusto delle masse». Il disprezzo per i gusti delle persone è evidente.
Per gli autori «il mercato è il più grande esperimento culturale» e ha avuto il grande merito di «liberare l'arte»; tutto questo è palese se si guarda allo sviluppo, dall'Ottocento in poi, dei media. Dalla nascita della fotografia a quella di Internet, passando per l'invenzione del cinema e della televisione, questi nuovi mezzi hanno consentito l'affermarsi di forme artistiche popolari, capaci di finanziarsi autonomamente. Lo sviluppo della tecnologia, ad esempio la possibilità di riprodurre un'opera d'arte, ha dato il via all'imprenditorialità culturale. L'intervento pubblico ha invece il difetto di cristallizzare le forme dell'offerta culturale.
Ma il finanziamento pubblico alla cultura ha un'altra grave colpa: quella di falsare la concorrenza. Chi beneficia del finanziamento pubblico parte da una posizione di vantaggio rispetto a chi non ottiene sovvenzioni. Se lo Stato decide di sostenere economicamente la cultura cosiddetta «alta», esclude che questa possa essere fornita da soggetti privati. Esiste una domanda di cultura «alta», che può essere intercettata da istituzioni culturali private, a patto però che queste non debbano uscire dal mercato a causa della «concorrenza sleale» delle istituzioni sussidiate. Banalmente, chi può permettersi prezzi più bassi?
Per gli autori la giusta ricetta prevede «più spirito imprenditoriale, maggiore confronto con le esigenze del pubblico, meno fantasie di onnipotenza». La loro soluzione non è per un azzeramento dell'intervento pubblico, ma per «tenere conto dei meccanismi di mercato e fare un uso mirato degli incentivi pubblici». Ma di quanti teatri ha bisogno un Paese? Di quanti musei? Di quante mostre? Prima di tutto occorre smettere di «drogare» il settore.

La scelta del numero delle istituzioni culturali non deve essere fatta dall'alto, in maniera dirigistica, ma deve emergere «spontaneamente» a seguito delle capacità degli operatori. È questo il passaggio culturale da compiere: affidare allo Stato il compito di dare regole chiare e lasciare che vincano i migliori.

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