Sottoporre Inferno (Mondadori) di Dan Brown a un esercizio di critica letteraria sarebbe come sottoporre un bambino sul suo triciclo alla prova del palloncino. Un libro di Dan Brown non si recensisce, non si legge: si guarda il film (che non c'è) da cui è comunque tratto, in attesa che il film esca davvero nelle sale. Cinquecentoventicinque pagine di puro film, inclusi effetti speciali, controfigure, stuntman. Avventure replicabili, alla Indiana Jones: Dan Brown non è un mostro di fantasia, è un mostro di ritmo.
Si comincia con un colpo di pistola, che colpisce Langdon di striscio. Qui, come nei film con Tom Cruise, i buoni si distinguono dai cattivi per la mira migliore: il buono colpisce sempre, il cattivo non sempre. Langdon è a Firenze, il colpo gli fa perdere la memoria recente. Qualcuno cerca di ucciderlo in ospedale, secondo tradizione, ma morirà soltanto un medico. Una dottoressa, guarda caso anglosassone, finita a curare i malati a Firenze non si sa come e perché (ma poi si saprà) si unisce a Langdon. Ha un Q.I. mostruoso, superiore a Michelangelo, Leonardo, Mozart, pari quasi a Chuck Norris.
Chi vuole uccidere Langdon? Può darsi che il mandante sia qualcuno che è già morto, e che i sicari agiscano indipendentemente da lui... Un'associazione benemerita, il «Consortium», dotata di elicotteri, droni e armi efficientissime nonché dell'autorità di comandare a bacchetta anche la polizia italiana e di bloccare un'intera città come Firenze (dove non tutti sono tenuti a interessarsi di Langdon e dei suoi affari) è sulle sue tracce. E non ha intenzioni benevole. Tutto questo spiegamento di forze non impedisce a Langdon e alla sua amica di farla sempre franca. Sembra che qualcuno voglia scatenare una peste per ridurre della metà la popolazione mondiale. E Langdon è, pare, il solo a poter salvare l'umanità, perciò va eliminato. L'incarico di salvare il mondo gli è stato conferito dall'Organizzazione Mondiale per la Sanità. Il libro, dopo averci regalato una splendida visita-spot a Firenze, con i due in fuga da Palazzo Pitti al Corridoio Vasariano, di qui alla Sala dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, con la rivelazione delle simbologie dantesche, ci sposta altrove. È Dante stesso, attraverso alcuni versi espunti (meno male) dalla Commedia, a indirizzare tutti verso Venezia e poi e poi...
È difficile che un maledetto intellettuale europeo come me possa leggere questo libro senza mettersi a ridere. Anche la storia dei poveri traduttori rinchiusi in un bunker a pane e acqua, senza possibilità di comunicare con l'esterno... Tutto questo prendersi sul serio... Ma so che sbaglio. E so correggermi. E allora diciamolo: Inferno è un libro molto utile. Prima di tutto, è una grande pubblicità per Firenze, che ha bisogno di essere riempita d'oro per poter salvare il suo spaventoso patrimonio artistico e culturale. Ma c'è anche il modo in cui Brown ci presenta l'arte e la letteratura italiane. Se io non avessi mai visto Firenze, e dovessi farmene un'idea leggendo Dan Brown, ne risulterebbe un'immagine surreale, un po' fantasy, un po' Signore degli Anelli. Lo stesso vale per la Commedia dantesca, e soprattutto per l'Inferno, la cui capacità di tradurre «l'idea astratta dell'inferno in una visione chiara e spaventosa, viscerale, palpabile e indimenticabile» (pag. 78) avrebbe, secondo Brown, portato molti nuovi fedeli alla Chiesa.
Noi tutti conosciamo l'opinione di Dan Brown sui cristiani, a suo dire una setta persuasa che il suo dio risorga tutti gli anni, in un giorno di primavera. Ma non è questo che importa. Quello che importa è che un simile giudizio non impedisce a un uomo di leggere Dante. Me ne accorsi in Cina, anni fa, dove scoprii che Dante è molto amato da quelle parti, anche se per i più la sua opera è una specie di continuazione di Harry Potter. È la globalizzazione, baby. Dante è un videogioco in testa alle classifiche, mentre a Palazzo Pitti vi attendono Pippo, Pluto e Paperino. Ma la vera novità è che siamo noi che sbagliamo, continuando a santificare Dante e Leonardo (e Boccaccio, Ariosto, Leopardi ecc.), senza accorgerci che ogni celebrazione, Benigni incluso, è solo una lapide in più, una piccola lapide italiana. Se vogliamo salvare la nostra letteratura è tempo di toglierla dalle teche e dagli altari dove l'abbiamo sistemata noi tutti: storici, italianisti, antologisti, editori, giornalisti, studenti, lettori. Se essa è grande, come io credo, resisterà alla sfida globale: straziata, fraintesa, malmenata, uscirà comunque vincitrice. La leggeranno con profitto peruviani, ucraini, filippini. Altrimenti, sarà condannata. O all'inferno o in paradiso, insomma, ma basta col limbo. Io sono ottimista.
Perché Dan Brown parla sempre dell'Italia? Perché l'Italia è necessaria al mondo, ecco perché. Tutti lo sanno, meno noi italiani. Per questo non temo Dan Brown e gli dico: benvenuto, caro ignorantone, qui c'è posto anche per te e per il tuo tecno-gotico. Vedrai, ti conquisteremo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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