"Ecco la mia Biennale: avrà un effetto museo"

Il quarantenne curatore della rassegna d'arte veneziana spiega la propria filosofia. "Ho voluto togliere enfasi e privilegiare la progressione dalla natura alla tecnologia"

"Ecco la mia Biennale: avrà un effetto museo"

Massimiliano Gioni, quarant'anni, di Busto Arsizio, ha presentato ieri a Roma la «sua» Biennale d'arte di Venezia. «Sua» perché lui ne sarà il curatore.

Gioni, sono passati dieci anni dall'ultimo direttore italiano alla Biennale di Venezia. Cosa è cambiato da allora?

«Quasi tutto. È cambiata Venezia con le fondazioni di Pinault e Prada, la Biennale è diventata più grande e competitiva a livello internazionale, le partecipazioni nazionali sono cresciute per un'offerta impensabile allora. Siamo passati dal boom e dall'entusiasmo del post 2001 alla più profonda recessione che si ricordi, in atto da diversi anni. Nel mondo dell'arte, in particolare, si è verificata come una scissione fra la crescita del mercato e del collezionismo e una certa insofferenza per il sistema, al punto che il curatore finisce per essere una figura marginale e la mostra meno importante di un evento o di una fiera».

Sempre in quella Biennale lei esordiva come curatore di un particolare Padiglione Italia, inscatolato nell'architettura degli A12. Rispetto al 2003 che peso ha oggi l'arte italiana nel mondo e che spazio avrà anche in termini numerici nella sua mostra?

«Il mondo ha altri confini e proprio nel 2003 venne introdotta per la prima volta l'arte araba e una sezione sull'Estremo Oriente. L'Italia ha perso centralità, si sono affermate grandi eccellenze come Maurizio Cattelan, Rudolph Stingel e Francesco Vezzoli, ma manca una scena coesa. È un fenomeno fisiologico già verificatosi negli anni '70. Nella mia mostra ci saranno 13 artisti italiani, alcuni scelti per vicinanza generazionale come Diego Perrone, Enrico David e Roberto Cuoghi, grandi maestri quali Marisa Merz, Carolrama e Gianfranco Baruchello. Ci sarà uno sguardo al passato con Enrico Baj, i disegni di Domenico Gnoli e l'“intrusione” di Marco Paolini, regista e attore di cui mi interessa il modo in cui racconta l'Italia».

Niente Cattelan, dunque, che molti attendevano. Ma allora si è ritirato davvero. Che sta facendo da baby pensionato?

«Tutto tranne il suo mestiere: l'editore, il curatore di mostre. Al momento non so se intenda ritornare. A questa sua fase si adatta perfettamente ciò che scrisse Henri-Pierre Roché (autore di Jules e Jim) a proposito di Marcel Duchamp: il capolavoro sta nell'uso del suo tempo».

Il titolo della mostra, «Il palazzo enciclopedico», fa pensare a una visione colta e utopistica dell'arte, lontana da provocazione e sensazionalismo. A cosa si è ispirato?

«È una mostra “di testa” che parla della confusione e nel caos cerca di capire e rimettere ordine. Il titolo prende spunto dal modello che nel '55 Marino Auriti, sconosciuto artista di un paesino abruzzese, Guardiagrele, elaborò per la costruzione di un “suo” museo impossibile che doveva essere alto 700 metri e largo 10 isolati. Uno spazio che avrebbe rappresentato l'immaginazione allo stato puro, il delirio. Pur sapendo che non lo si sarebbe mai realizzato, lo presentò all'ufficio brevetti. È il tentativo di descrivere tutto, il desiderio di conoscenza e la consapevolezza del fallimento. Mi piaceva inoltre portare alla luce un artista poco noto e far dialogare non solo passato e presente, ma anche sistema e outsider».

Da chief curator ha inaugurato la nuova sede del New Museum. È specializzato nel trovare location sempre nuove per le mostre della Fondazione Trussardi a Milano. Ci dobbiamo aspettare una trasformazione degli spazi anche a Venezia?

«Ho privilegiato una dimensione interiore, puntando più sull'effetto museo che su quello Biennale, tentando di attenuare gli aspetti melodrammatici dello spazio, soprattutto all'Arsenale. Ho collaborato con Annabelle Selldorf, l'architetto della Neue Galerie di New York, per togliere l'enfasi e pensare l'allestimento come un accumulo di oggetti in una progressione dalla natura alla tecnologia».

I rumors del mondo dell'arte la danno in pole position per la direzione di un grande museo italiano, forse il MAXXI... Una buona ragione per lasciare New York e venire a Roma?

«Per esempio la coda alla vaccinara... Ma sto bene dove sto».

In Italia la cultura è legata a doppio filo alla politica. All'estero no. Per questo è meglio lavorare fuori?

«Forse mi è andata bene, ma finora non ho sofferto tanto la pressione della politica. Talvolta lavorando con la Fondazione Trussardi ci siamo trovati davanti assurdi intoppi burocratici, ma con i privati si riesce abbastanza a star fuori da queste dinamiche. Peraltro io sono un fan dell'Italia e devo dire che se da noi la politica ha il suo peso, negli Stati Uniti domina il pragmatismo dei soldi e ogni curatore deve imparare a trovarseli».

Eppure, soprattutto per un italiano, la Biennale è davvero la mostra più importante del mondo, la consacrazione di una carriera. Ansie? Preoccupazioni? Riti? Esorcismi?

«Ansia parecchia. La Biennale di Venezia arriva solo una volta nella vita, spesso alla fine di un percorso.

È una mostra che fai con poco tempo e pochi soldi e dunque pensi “o la va o la spacca”. Poi alla fine sei convinto di aver sbagliato e vorresti rifare tutto. Quando curai la Biennale di Berlino nel 2006 smisi di fumare come “fioretto”. Qui sto facendo lo stesso, anche se ogni tanto ci ricasco...»

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