Gae Aulenti, l'archi-chic dei salotti rossi

Il grande merito di Gae Aulenti è l'essere stata l'unica donna dell'architettura italiana, e tra le poche in Europa, a farcela in un mondo di uomini. Oggi è normale considerare la Decq o la Hadid delle archistar, ma negli anni '60 non era affatto così. In questo è stata una pioniera.
La Aulenti - nata nel 1927 - è stata interprete in prima battuta del rigore modernista ereditato da un maestro come Ignazio Gardella e ne ha transitato lo stile asciutto e funzionale verso il nuovo corso del postmoderno, che ha coinciso con l'esplosione dell'Italian Style nel mondo. Ha coniugato il desiderio di asciugatura laica e disciplinata al dominio del colore, ma mentre buona parte dell'architettura e del design italiano degli anni '80 andrebbero messi in soffitta, lei si fa ancora apprezzare per un postmoderno non cialtronesco, rigoroso, sordo agli eccessi. Certo, se si considera l'architettura alla luce dell'avanguardia, Gae Aulenti riqualifica ma non ricerca, rilegge ma non evolve. Ed è questo il suo limite. La sua intuizione teorica sta piuttosto nell'aver capito che tra moderno e postmoderno può esserci convivenza, così come tra tradizione e attualità.
Gae Aulenti è stata a lungo l'architetto dell'establishment, legata a Gianni Agnelli per il quale ristrutturò Palazzo Grassi a Venezia come uno spazio espositivo per l'arte contemporanea. Militante nelle file della sinistra bene, amava certo più i salotti degli operai, miliardaria presenzialista ma intransigente con gli altri, ha rappresentato a lungo la figura dell'intellettuale dominante che si nutre di contatti nell'upper class e nelle stanze dei bottoni. Per il resto, la cifra politica della Aulenti - paradigma del radical chic, comunista in astratto e borghese nella quotidianità - è riassunta dal giudizio di Montanelli dopo che le Br gli spararono alle gambe: «In due salotti milanesi - quello di Inge Feltrinelli e quello di Gae Aulenti - si è brindato all'attentato contro di me e deplorato solo il fatto che me la sia cavata».
Comunque, dopo la Torino della Fiat ha interpretato la «Milano da bere», a partire dalla progettazione di piazzale Cadorna (2000), non senza critiche e giudizi contrastanti. Nelle case degli yuppies non mancavano mai i suoi più famosi oggetti di design come la lampada Pipistrello per Martinelli (1963) e il tavolo in vetro a ruote per Fontana Arte (1982), status symbol dei nuovi ricchi di sinistra.


In campo museale ha firmato, tra gli altri, i progetti dell'Asian Art Museum di San Francisco, il riallestimento del Centre Pompidou, l'ex scuderie del Quirinale. L'affermazione internazionale è passata però da Parigi, dove ebbe l'intuizione geniale di riconvertire la vecchia stazione ferroviaria d'Orsay nel museo d'arte moderna che ospita i capolavori dell'Impressionismo.

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