Hughes, il talento di ridere del piagnisteo

Soprannominò Jean-Michel Basquiat l'«Eddie Murphy della pittura». Robert Mapplethorpe non era altro che un gay alla ricerca di facile pubblicità attraverso lo scandalo dei membri eretti. Il fotografo Serrano poco più che un becchino e in quanto a Damien Hirst, lo considerava un cialtrone sopravvalutato.
Giudizi pesanti, non tutti condivisibili, che in bocca a qualcun altro avrebbero suonato come affermazioni qualunquiste. Se pronunciate da lui, Robert Hughes, c'era da aspettarsi il parere controcorrente, la sferzata al buon senso comune, il dito puntato verso il conformismo del salotto buono.
Hughes è morto ieri a 74 anni, in un ospedale del Bronx dopo una lunga malattia. Se ne è andato pochi giorni dopo Gore Vidal, altro personaggio scomodo della cultura e del giornalismo americano, entrambi noti più per le clamorose e anticonformiste prese di posizione che non per un corpus critico-letterario. Ma la similitudine si ferma qui: Vidal era amato e vezzeggiato dai salotti, esponente di quell'upper class newnewyorchese che Hughes, australiano di nascita, fustigava senza pietà, tanto da rimanere escluso dal giro giusto e trattato sempre con grande diffidenza, nonostante le sue opinioni fossero supportate da eccellente informazione e ottima filologia. Il torto di aver demistificato diversi mostri sacri gli ha presentato un conto piuttosto salato, in un mondo, quello della cultura, dove pensare diversamente equivale a essere reazionario e un po' fascista. Hughes è stato etichettato come pensatore antimoderno, antiprogressista, incapace di capire il contemporaneo, quando invece le sue opinioni hanno espresso l'unica autentica differenza nel conformismo della società americana dagli anni '60 in poi.
Difficile definirne un solo specialismo. Hughes è stato critico d'arte e non un curatore di mostre, professione che tanto detestava, certamente un erudito e un conoscitore. Ma l'arte non è un sistema di pensiero che viaggia da solo, non è pura estetica, bensì riflette la società in cui viviamo, in particolare la politica.
Intellettuale eterodosso e contro gli schemi fin da giovane, Robert Hughes era nato a Sydney nel 1938. Studiò Storia dell'arte ma si interessò anche di fumetto. Trasferitosi prima in Europa, poi a New York, è stato collaboratore di diversi giornali (Sunday Mirror, Time, Observer), documentarista (memorabile il film dedicato a Goya), autore televisivo. A conferma della sua assoluta mancanza di pregiudizi, definì il cartoonist Robert Crumb «il Brughel americano» e scrisse illuminati testi critici sui pittori Frank Auerbach e Lucien Freud. Anche i suoi libri trattano argomenti diversi tra loro: La riva fatale. L'epopea della fondazione dell'Australia (1990) lo riporta alle proprie origini, mentre Barcellona (2005) è l'omaggio sentimentale a una delle città che più amava.
Con il programma The Shock of The New, trasmesso dalla BBC, conquistò la fama di grande polemista, arrivando a smontare il mito di Andy Warhol e di Gilbert&George, esempi di arte pulp e decadente, stroncando senza pietà l'astro nascente Jeff Koons, «figlio illegittimo di Warhol e di Rosemary» (la madre del demonio nel film di Polanski...).
L'opera che gli ha dato fama imperitura, assurgendo per i fan a autore di culto, è La cultura del piagnisteo (1994), dove mette alla berlina l'ipocrisia del politicamente corretto. Un atteggiamento falso e stucchevole che impedisce di esprimere il proprio parere per non offendere nessuno, soprattutto le cosiddette minoranze. Hughes cita diversi esempi deliranti, come il divieto assoluto secondo le regole della nuova politica di usare nelle università americane la parola chairman in rispetto al genderism, perché avrebbe discriminato le donne (da qui l'uso indiscriminato di «ministra», «avvocata» e amenità simili). La società degli anni '90 riversa quintali di sensi di colpa sul povero maschio bianco, imbarazzato nel dichiarare la propria eterosessualità o di essere contro l'aborto: «negro» non si può più dire, «nativo» sostituisce «indiano», persino l'alimentazione ne risente e trionfa il vegetariano contro il carnivoro. Il cieco è un «non vedente», il morto un «non vivente», il vecchio bidello di un tempo promosso a «operatore scolastico».
Fisico imponente, occhi celesti, mascella quadrata che certo non fa pensare a un liberal, Hughes fustiga l'appiattimento di fine '900, epoca senza eroi, dove i generali e i conquistatori vengono sostituiti, per il godimento dell'informazione, dal becero dal cuore d'oro, dal criminale mammone, dal gay epilettico che parla con gli animali. Quest'ossessione per i diritti civili ci ha fatti sprofondare nell'esaltazione assurda di qualsiasi minoranza, meglio se perseguitata, dai dialetti più incomprensibili alla cucina etnica, specchio della disfatta del XX secolo.

Nella «cultura del piagnisteo» Hughes disprezza il falso moralismo, il multiculturalismo e ritiene l'arte la principale responsabile della diffusione di idee distorte attraverso immagini irrealistiche.
Il suo titanico anticonformismo, la sua geniale scorrettezza (come quella di Barney) lo hanno reso uno tra gli ultimi grandi eroi. Fottutamente di destra. Dio lo aspettava in paradiso per farsi quattro risate.

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