Credete di conoscere Michael Jackson? Beh, forse il reportage Michael di John Jeremiah Sullivan, incluso in Americani (Sellerio, pagg. 316, euro 16), potrebbe fornirvi qualche nuova informazione. Ad esempio, non si capisce il divo senza conoscere Prince Screws, schiavo delle piantagioni di cotone dell'Alabama. Dopo la Guerra civile, divenne fittavolo. Suo figlio Prince Screws Jr acquistò una fattoria. Il figlio del figlio, Prince Screws III, andò a vivere in Indiana, e trovò lavoro come inserviente sui treni. Ebbe due figlie: Kattie e Hattie. Kattie mise al mondo dieci pargoli. L'ottavo era Michael. Quando quest'ultimo chiamò Prince uno dei suoi figli, la stampa e le tv si misero a ridere: che bizzarro megalomane quel Jackson! La storia era diversa. «Tra tutte le cose che rendono inconoscibile Michael - scrive Sullivan -, pensare di conoscerlo è forse la più ingannevole». Un demo casalingo, registrato dai fratelli Randy e Janet, conserva la vera voce di Michael: roca, maschile. Su quel nastro, si sente Jackson arrivare al falsetto per gradi, con un certo sforzo, prova dopo prova. Presto l'artificiale diventerà la sua vera natura. Al punto che gli amici come Liza Minnelli testimoniano che la voce profonda talvolta sbucava fuori ma «solo nei momenti in cui non era se stesso». Quanto al suo interesse per i bambini, è difficile immaginarlo privo di una dimensione erotica, ma non è scontato che sconfinasse nel criminale. Sullivan ci mette sotto gli occhi una serie di fatti e due profili psicologici diversi: il pedofilo attivo e il divo rimasto congelato nell'adolescenza. Entrambi plausibili. A ciascuno il suo.
Il libro di Sullivan, editor della Paris Review, si inserisce felicemente nella lunga tradizione del new journalism, ormai vecchia di cinquant'anni e passa, ma ancora vivace negli Stati Uniti. Qui in Italia va di gran moda qualcosa di molto simile, sotto l'infelice e più ampia definizione di faction. Eppure, misteriosamente, non esistono riviste, inserti, giornali disposti a investire in questo ibrido tra letteratura e romanzo. Forse perché costa, e quasi sempre preferisce interrogarsi su fenomeni di lunga durata, tralasciando, solo all'apparenza, la stretta attualità. Peccato, forse ci siamo persi i nostri James Agee, Gay Talese, Tom Wolfe, Norman Mailer, Truman Capote, Hunter S. Thompson, Michael Herr, Denis Johnson, William Vollmann, David Foster Wallace, Jonathan Littell. Giusto per fare i primi nomi che vengono in mente.
Il filo conduttore degli articoli di Sullivan potrebbe essere la riscoperta, a vantaggio del pubblico delle grandi città, dell'immensa provincia americana. Axl Rose, il leader dei Guns N' Roses, non sarebbe mai diventato l'icona rock che fu negli anni Novanta se non fosse «venuto dal niente», cioè da Lafayette nell'Indiana. Rintracciati i suoi amici di scuola, Sullivan ci descrive un Axl grottesco, rozzo, a volte stupido. La sua cultura non prevedeva l'ironia e questa fu la sua arma vincente. Mentre il rock «alternativo» prendeva una deriva snob, condannandosi all'irrilevanza, lui credeva nel suo ruolo: e i Guns N' Roses divennero imprescindibili. Furono loro a rendere possibili i Nirvana. Musica e televisione hanno un ruolo predominante nel libro, che racconta anche il Creation Festival, il più grande festival di rock cristiano, o la vita delle star di Real World, la trasmissione di Mtv che fu l'incubatrice di tutti i reality show a venire.
Provincia, però, vuol dire anche altre cose: famiglie in pellegrinaggio a Disney World, un luogo di profondo struggimento dove sopravvive (a stento) «l'idea condivisa dell'America come fantasia capitalista»; letterati del Sud «superati» dalle mode come Andrew Lytle, per anni anima della rivista Sewanee Review, mentore di Flannery O' Connor, uno dei primi a pubblicare Cormac McCarthy; università periferiche in cui si nascondono i profeti del futuro prossimo dell'umanità. Come quelli che studiano, a Centerbrook, nel sud dell'Ohio, l'incredibile velocità alla quale evolvono animali e piante, a causa dell'aumento delle temperature e della vicinanza sempre maggiore dell'uomo. Sarà un caso che si siano moltiplicate le aggressioni, in tutte le parti del mondo, da parte di specie un tempo ritenute innocue?
Il pezzo di bravura di Sullivan, però, è dedicato al fratello Worth, rocker fulminato da un microfono e rimasto a lungo in coma. Risvegliatosi per miracolo, Worth riscopre il mondo con spontaneo candore.
«Avevo sempre dato per scontato - scrive l'autore -, come un Hobbes da quattro soldi, che il centro del cervello, se mai si potesse trovare, fosse un luogo inevitabilmente molto oscuro, che tutto ciò che è buono e bello della condizione umana sia un risultato dei nostri sforzi contro tutto ciò che è innato, contro la natura fisica. Mio fratello mi fece cambiare idea». Il «centro del cervello» era «addirittura un posto poetico. Aveva toccato la morte, o la morte aveva toccato Worth, ma la cosa non aveva reso meno interessante la vita».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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