L’arte di dire addio agli anni Settanta

L’arte di dire addio agli anni Settanta

L’immagine scelta per introdurre i visitatori alla mostra suona almeno fuorviante. Si tratta di uno scatto di Alfa Castaldi, habitué del Bar Giamaica, fotografo di moda e di still life, dove da una strana macchina robotica escono due mani intente a servirsi di ostriche. D’accordo che negli anni ’70 uno degli slogan più creativi del movimento era proprio «diritto al caviale», però questa foto sembra proiettarsi più sul decennio successivo, dove la Milano del terrorismo diventa la Milano da bere, la metropoli del postmoderno e dell’arte ludica e disimpegnata.
Ma forse, per una volta, i curatori di questa intrigante mostra che si apre oggi a Palazzo Reale (fino al 2 settembre, ingresso gratuito e con orari lunghi il giovedì e il sabato), non hanno avuto remore nell’archiviare, celebrandone il funerale, l’esperienza più contraddittoria e devastata del nostro secondo novecento. «Addio anni ’70» vuole mettere davvero la parola fine su un’eredità culturale e socio-politica capace di fare soprattutto danni, muoversi in maniera ambigua, favorire lo spontaneismo creativo e produrre opere di livello non sempre eccelso. Eppure è impossibile non notare l’energia che sprizzava allora, in maniera del tutto spontanea e inattesa di un’arte completamente fuori dal sistema, che solo in piccola parte conosceva il mercato, che si fondeva con altre discipline e riconosceva nella militanza un valore aggiunto. Rispetto al vuoto pneumatico di oggi, alla noia di mostre tutte uguali, il sentimento è quello della nostalgia per un’età dell’oro, nonostante piazza Fontana e i marciapiedi sporchi di sangue.
Tra 1969 e 1980 la Milano dell’arte è davvero città a vocazione internazionale. Torino e Roma lo furono prima, la Capitale lo sarà anche dopo, ma negli anni ’70 le cose importanti accadevano e passavano sotto la Madunina. Lo testimoniano le non poche presenze straniere registrate nelle gallerie milanesi, come Marconi, Multhipla (diventata poi Mudima), Valsecchi, Ala, Pellegrini e tante altre: si parla ad esempio di Richard Hamilton, guru della pop art inglese, dei coniugi Becher, del santone John Cage, di diversi esponenti di Fluxus, della scultrice americana Louise Nevelson, del precursore assoluto dell’arte relazionale Gordon Matta Clark. I musei di arte contemporanea, allora, non esistevano e quindi gli artisti d’avanguardia venivano ospitati talvolta in spazi alternativi e autonomi. Ciò che emerge dalla scelta dei curatori, Francesco Bonami e Paola Nicolin, è che solo in parte l’arte stesse dietro ai temi del movimento, che l’impegno era subordinato a una creatività anarcoide, velleitaria, fine a se stessa e, qualche volta, decadente. Depurata dalla retorica linguistica di allora (ma non siamo più nel ’68 e la leggerezza è alle porte), la creatività più interessante è quella che si libera della pesantezza ideologica e punta verso il cazzeggio di Parco Lambro, del cinema sperimentale, dei Global Tools, degli happening e del sesso libero.
Come in Italics, la discussa mostra che nel 2008 tentò una lettura dell’arte contemporanea italiana oltre l’Arte Povera, anche questa volta Bonami ha l’intelligente intuizione di non esporre una ristretta élite perché i fenomeni più interessanti si costruiscono nella complessità e nella coesistenza di linguaggi diversi. Logico mettere accanto all’utopia visionaria di Baruchello la pittura pop di Adami e Tadini, vicino alla scultura potente di Spagnulo i disegni espressionisti di Testori, e quindi la leggerezza concettuale di Fabro, unico esponente milanese dell’Arte Povera e il decorativismo di Arnaldo Pomodoro su cui Bonami stesso si è espresso sempre in termini negativi. Spicca, peraltro, la qualità di grandi isolati che necessiteranno presto di una revisione critica che renda loro giustizia e uno spazio più centrale nell’arte degli anni ’70: mi riferisco ancora Baruchello, a Cavaliere, Isgrò, Chiari e Agnetti.


Altro dato rilevante è la presenza di un’ampia famiglia di fotografi, che all’epoca non si consideravano ancora artisti ma più che altro testimoni di un tempo fragile e incerto con quello stile in bianco e nero che oggi fa molto vintage e dunque prende: il proletariato giovanile secondo Basilico, il processo Calabresi nell’obiettivo di Carla Cerati, e poi i ritratti dei Mulas, il bellissimo video Cani lenti sulla musica di Atom Heart Mother dei Pink Floyd.

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