Il libro che aveva "predetto" l'incubo della guerra in Afghanistan

Il "Grande Gioco" è un testo che affonda le sue radici nei secoli passati ma che parla ancora oggi a chiunque voglia conquistare l'Afghanistan

Il libro che aveva "predetto" l'incubo della guerra in Afghanistan

L'Afghanistan è storicamente definito "la tomba degli imperi". Dai tempi di Alessandro Magno fino, più recentemente, alle sfortunate avventure militari dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti il Paese, pur dilaniato da quattro decenni di guerra pressoché permanente, si è dimostrato inespugnabile o in ultima stanza incontrollabile da parte di attori stranieri che miravano a controllare il Paese dell’Asia centrale per condizionare profondamente gli sviluppi regionali.

Le colonne sovietiche bersagliate dai mujaheddin e le truppe Nato costrette a fare i conti con gli attacchi dinamitardi dei Talebani e una guerriglia strisciante negli ultimi due decenni seguiti agli attentati dell’11 settembre hanno avuto i loro predecessori negli eserciti britannici che nel XIX secolo tentarono di spingersi tra le impervie montagne e gli altopiani dell’Afghanistan. Londra era allora intenta a competere con l’Impero russo nel "Grande Gioco", la partita geopolitica, commerciale e d’intelligence con cui le due potenze si disputavano il controllo di territori impervi, ostili ma strategici. Dalle steppe dell'Asia centrale turanica sede di emirati indipendenti e di antiche città come Samarcanda e Bukhara e dai picchi del Caucaso l’oggetto della contesa arrivava fino alla Cina, al Tibet, all’Himalaya, alla Persia. Avendo il suo punto focale proprio nell’impervio territorio afghano, abitato da una moltitudine di popoli e dominato da una dinastia erede delle conquiste operate sotto il dominio di Ahmad Shah Durrani nella seconda metà del XVIII secolo.

L'Afghanistan entrò nell’interesse inglese dopo il consolidamento della presa di Londra sull’India e dell'espansione russa in Asia centrale, come ricorda lo storico Peter Hopkirk ne Il Grande Gioco, saggio cruciale per capire le sfide tra militari, avventurieri e spie al servizio delle due corone per realizzarne i rispettivi obiettivi: Mosca cercava l’accesso ai mari caldi e agli Oceani e una via per poter in prospettiva minacciare i domini britannici, Londra puntava a confinare nell’entroterra l’impero degli zar. Dominare l’Afghanistan avrebbe voluto dire puntellare una strategia di contenimento paragonabile a quella immaginata oggigiorno dagli Stati Uniti nei confronti della Cina, con dei cuscinetti politico-militari ai bordi della potenza rivale.

Il Grande Gioco di Peter Hopkirk

Nel timore che l’Afghanistan governato da Dost Muhammad, appartenente all’etnia dei pashtun da cui oggigiorno provengono gli alti papaveri Talebani, potesse diventare un satellite dei russi e preoccupato dell’attività degli emissari dello zar a Kabul il 30 settembre 1838 Lord Auckland, governatore generale delle Indie, promulgò il "Manifesto di Simla" con cui la Gran Bretagna decise ufficialmente di spodestare il re dell’Afghanistan, sostenendo la causa dell’oppositore Shah Shuja, esule in India nella regione del Punjab. L’anno successivo le forze britanniche penetrarono i confini montani dell’Afghanistan organizzate dalla Compagnia delle Indie Orientali che amministrava in nome della corona della Regina Vittoria il subcontinente. L’esercito di circa 20mila uomini schierato dagli inglesi penetrò nel territorio del Paese, mano a mano che gli uomini di Dost Muhammad lasciavano spazio e terreno e si insediò nella capitale Kabul, ma nonostante il reinsediamento del fantoccio Shah Shuja sul trono gli inglesi non riuscirono a costruire il consenso necessario a far accettare al popolo del Paese un sovrano ritenuto come allogeno e a comprendere il delicato sistema interno all’Afghanistan.

In questo contesto, l'Impero britannico anticipò sul campo errori e sbagli poi simmetricamente riproposti dai decisori politici sovietici e americani nei due secoli successivi.

In primo luogo, la scelta di investire le incerte élite locali di "missioni" politiche in realtà loro estranee e coincidenti con quelle delle potenze presenti sul terreno. Quel che ai tempi dell’India britannica era la difesa dalla penetrazione russa divenne la causa del comunismo mondiale durante l’invasione sovietica e la fumosa “guerra al terrore” a partire dalla fase aperta dagli attentati dell’11 settembre 2001 a New York.

In secondo luogo, i britannici, come poi i sovietici e gli americani, non capirono la complessità tribale ed etnica del Paese, fortemente interessato da logiche claniche e da legami politico-sociali non comprensibili con la mera focalizzazione su dati, come quello religioso, tipici dell’analisi occidentale. Come molto è stato sottovalutato nella natura pashtun dei comandanti Talebani, così diversi fattori sfuggirono ai britannici laddove proposero, tra il 1839 e il 1840, al nuovo governo afghano di sostituire la tradizionale struttura fondata su legami feudali e sulla lealtà di armate private di singoli potentati locali con un esercito permanente che avrebbe reso complesse la convivenza tra diverse stirpi.

In terzo luogo, britannici, sovietici e statunitensi hanno sottovalutato il ruolo giocato dal fattore ambientale nella campagna afghana e dalla natura di fortezza pressoché inespugnabile che assumono le montagne e le vallate del Paese centroasiatico per combattenti intenti a portare avanti una guerra di logoramento.

In Afghanistan una forza d’invasione perde laddove deve trasformare la sua permanenza in un’occupazione prolungata e logorante perdendo di vista i dati politici e gli obiettivi di medio-lungo periodo della sua permanenza. Questo dato strategico è apparso valido per i sovietici, appare coerente con la scelta degli Stati Uniti di lasciare il Paese nel 2021 a due decenni dalla strage delle Torri Gemelle e è valso, in maniera tragica, per i britannici. Che dopo aver ridotto a soli 8mila uomini la forza di occupazione guidata dal generale William Elphinstone e aver preferito l’asserragliamento nelle città-fortezza alla conoscenza concreta del territorio furono messi sotto pressione, nel 1841, dalla guerriglia incessantemente condotta dai fedeli di Dost Muhammad, dalla tribù dei Ghilzai, da genti popolanti gli altipiani dell’Hindu Kush e vessate dai nuovi tributi imposti dal sovrano satellite di Londra. Nella giornata del 2 novembre Kabul insorse, i leader pashtun organizzarono l’attacco ai bastioni inglesi, dalle moschee fu proclamata addirittura la guerra santa.

Gli inglesi, mostrandosi palesemente come forza occupante, avevano offeso i cuori e le menti del popolo che avrebbero dovuto egemonizzare, furono costretti alla ritirata nelle peggiori condizioni: nel gelo dell’inverno, in un territorio ostile bersagliato dalle incursioni degli afghani, sotto l’incessante sferza della neve e del gelo. Dall’1 all’11 gennaio 1842 gli uomini di Elphinstone tentarono di raggiungere i passi che conducevano in India, ma la presenza di oltre 12mila aiutanti di campo e famigliari a fianco dei 4.500 militari partiti da Kabul rallentò la marcia, fece esaurire le provviste, acuì gli effetti del gelo e delle tormente.

Nella valle di Jundklund, sottoposti agli attacchi degli afghani, gli inglesi furono massacrati o presi prigionieri.

Dei militari, un solo uomo, William Brydon, raggiunse le posizioni inglesi per narrare l’accaduto e il disastro della rotta afghana dell’esercito inglese. Un presagio dei futuri insuccessi e dei disastri militari e umani che avrebbero accompagnato i tentativi di assalto alla nazione che è divenuta la tomba degli imperi.

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