Sapendo che stai per incontrare un Premio Pulitzer ti prepari a dovere. Studi, ti documenti. Immagini domande e prepari addirittura una scaletta dell'intervista. Poi all'appuntamento in un albergo romano si presenta questo quarantenne allegro, Paul Harding, con un sorriso disarmante e due occhi celesti pieni di felice curiosità. E il tuo castello di carta crolla. Ma come? - ti chiedi - Con i suoi due libri L'ultimo inverno e Enon (Neri Pozza) ha messo come primo attore la morte e il dolore della perdita di una figlia? Ha centrato come solo una grande penna sa fare l'abisso in cui si precipita quando un lutto improvviso e lacerante fa crollare il terreno sui cui poggiano le gambe. Ha raccontato con la stessa maestria di un Camus la discesa in un inferno tutto personale, dove viene alterata la stessa percezione delle proprie paure e delle proprie fantasie. E adesso scherza e si incuriosisce di tutto? Allora sei costretto a cambiare registro. E provi con domande provocatorie.
Cosa si prova a vincere il Pulizter? E vero, come dicono coloro che non l'hanno mai vinto, che ti cambia la vita?
«No. E perché mai? Prima di vincere non ho mai pensato a questo premio. Semmai la mia sfortuna è un'altra».
Sfortuna? A vincere un premio come il Pulitzer?
«A vincerlo con il primo libro! Lei non sa cosa vuol dire vedere tutti quei lettori di professione che affilano i coltelli aspettandoti al varco del secondo libro per poter finalmente dire: È stata tutta fortuna. Meno male che quando scrivo penso soltanto alla mia storia. Mi riesco a concentrare bene. L'unica cosa che porta il Premio Pulitzer è una serie di inviti a cene e occasioni mondane».
La vita in provincia è tutta un'altra cosa. Come nella sua Enon. Sembra quasi il luogo ideale dove covare frustrazioni e depressione.
«Alcuni posso anche stupirsi che l'alienazione non alberga soltanto nelle grandi metropoli, come ci hanno insegnato Dorothy Parker o Dawn Powell. In verità credo che mettere la provincia al centro di drammi esistenziali come quello di Enon sia ciclico».
Modelli cui si rifa?
«Direi soprattutto Flannery O'Connor e William Faulkner».
In provincia è più facile trovare l'uomo medio con la sua miope visione del mondo. Come il protagonista di Enon.
«Non era mia intenzione creare un paradigma. Charlie Crosby è così (limitato e ottuso), come molti che vivono nelle contee più periferiche. Ma non credo che la cultura americana in questo sia peggiore di quella di altri Paesi».
Nel suo nuovo romanzo racconta, tra le altre cose, la caduta in una dipendenza (da farmaci). Metafora di quanto sia facile oggi essere schiavi di qualcosa?
«È vero che il protagonista è schiavo del suo dolore prima e delle medicine per alleviarlo poi. Però quando scrivo io parto dal personaggio. E solo attraverso di lui che posso guardare il reale che lo incornicia. Detto questo è ovvio che la nostra fragilità è più che palese e che questo, spesso, porti a dipendenze come via di fuga dalla debolezza. Che poi, però, diventa una caduta nell'abisso. Perché la dipendenza rende la debolezza più forte».
Leggendo L'ultimo inverno e Enon viene in mente Montaigne: «Chi insegnerà agli uomini a morire insegnerà loro a vivere».
«Suona bene! Non conoscevo questa massima. Però è Emily Dickinson che mi ha insegnato che tutto è legato alla morte. La morte, diceva, è la grande costante della nostra vita. Non si può essere così ingenui da non saperlo».
L'ultimo inverno parlava della morte di George Crosby. Enon è il racconto del lutto che distrugge la vita di suo nipote Charles. E dopo? È vero che manca ancora un capitolo a questa triologia?
«Sì. L'avevo concepita così ancor prima di vincere il Pulitzer. Però non posso far finta di non vedere quegli sguardi interrogativi e allarmati di chi mi sta intorno».
Quindi?
«Vado avanti per la mia strada. È vero, però, che sto contemporaneamente lavorando a un testo di tutt'altro tipo».
Ambientato fuori dalla cittadina di Enon?
«Sì (ride, ndr). Però è prematuro parlarne. Ora penso solo a presentare Enon, il romanzo. Poi, appena torno in America, mi rimetto al lavoro».
A proposito di Enon, e quelli che avevano affilato i coltelli?
«Per ora li hanno rimessi nei cassetti. Speriamo per sempre. Ma non si sa mai».
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