"Il mio Padiglione Italia? Una grande mostra che soddisfa tutti i sensi"

Il curatore dello spazio più vasto della prossima Biennale veneziana: "Per esprimere la fisicità delle opere faremo leva su odori, suoni e luci"

"Il mio Padiglione Italia? Una grande mostra che soddisfa tutti i sensi"

Lo troviamo a Londra, impegnato nella presentazione all'estero del suo Padiglione Italia che aprirà il 30 maggio, al terzo giorno di inaugurazione della Biennale di Venezia. Bartolomeo Pietromarchi, curatore scelto in una rosa di dieci candidati, direttore del Macro a Roma, ci spiega in esclusiva le linee guida del suo progetto, aspettative e ansie di una mostra che rappresenta una svolta nella carriera di un critico.

Allora, la Biennale di Venezia: non è proprio una mostra come le altre...
«Assolutamente. C'è una grande attenzione e di conseguenza una grande responsabilità. Hai i riflettori puntati addosso e io sto provando a girarli al contrario, osservando le reazioni del pubblico mentre vado in giro a presentare la mostra con lo scopo non ultimo di trovare risorse. Così si amplifica il sistema di relazioni e di conseguenza cresce l'aspettativa per un evento neanche lontanamente paragonabile all'attività quotidiana in un museo, molto più a lungo termine e radicata sul territorio. Venezia è davvero un One Man Shot, tutto è più concentrato e hai l'occasione di confrontarti in pochi mesi con un pubblico internazionale che un museo non riesce ad attirare in cinque anni».

Però la direzione di un museo aiuta a conoscere e a interpretare i meccanismi.
«Credo infatti che la decisione di aver scelto il curatore in una rosa di direttori abbia voluto privilegiare l'esperienza di gestione, le relazioni con gli sponsor, la capacità di ottimizzare le risorse».

In un tempo di contrazione economica lei ha adottato la tecnica del crowfunding per rintracciare il denaro che manca al completamento del progetto. A che punto è?
«A circa 110mila euro, più dell'aspettativa iniziale, sulle soglie del terzo gradino individuato in 120mila. La raccolta scade il 12 maggio alle 12, e dunque abbiamo ancora un po' di tempo. Finora i donatori sono più di 100, di cui 8 di fascia alta e molti di fascia bassa, mentre il livello medio ha funzionato meno».

Qualche nome?
«Alcuni sono grandi collezionisti italiani: i Maccaferri di Bologna, Bulgari, Valsecchi e Caracciolo di Roma, Gaia di Torino. Nessuno di Milano».

Nella sua mostra ci sono 14 artisti, io e Buscaroli nel 2009 ne invitammo 20. Si può dire che il Padiglione Italia sia una Biennale nella Biennale?
«Direi di sì, a partire dalla dimensione di duemila metri quadrati, quattro volte più grande di qualsiasi altro padiglione straniero. Ed è giusto che l'Italia sia rappresentata come Paese centrale e importante: un ottimo esercizio per curare una collettiva in cui il 90 per cento delle opere viene prodotto per l'occasione».

Si nota una certa tendenza da parte dei curatori quarantenni, come lei e Massimiliano Gioni, a rivolgere lo sguardo verso il passato, soprattutto agli anni '70. Perché?
«Apparteniamo a una generazione che ha superato la visione storiografica della cultura. A esempio vedo Giulio Paolini come un artista contemporaneo e non storico, oppure di Fabio Mauri, scomparso nel 2009, presento una performance che farei fatica a riconoscere come un'opera di oltre 30 anni fa. Abbiamo perciò una grande libertà di attingere alla storia, anche nel caso delle fotografie di Luigi Ghirri di cui è in atto una riscoperta critica a livello mondiale, mentre per Gianfranco Baruchello parliamo di un artista dalla carriera lunghissima, cominciata negli anni '40, ultimo testimone vivente di un percorso che non c'è più. Quanto agli anni '70 penso che da lì siano partite riflessioni attuali anche oggi, un approccio linguistico sull'arte».

Forse l'arte contemporanea ha esaurito, come sostengono in molti, a esempio Francesco Bonami, la sua fase propulsiva?
«Non mi ha mai troppo convinto che l'arte debba anticipare il futuro, credo debba raccontare e interpretare il proprio tempo. E questo accadeva anche negli anni '70. Ciò che osservo è il profondo cambiamento odierno rispetto a quelle perverse dinamiche mercantili che l'avevano deviata su altri valori. L'arte sta recuperando spazi perduti, intensità, una capacita di riflessione al di là del successo».

Quali sono le linee guida del suo progetto?
«Soprattutto un tipo di mostra imprevedibile e plurisensoriale in un percorso che fa leva su odori, suoni, luci e che esprime la fisicità delle opere. Sono grandi installazioni, 12 su 14 completamente inedite».

Nei suoi saggi ha spesso relazionato l'arte alle trasformazioni della società. Pensa che la difficile situazione politica e finanziaria di questi anni abbia influito negativamente sulla produzione di arte in Italia?
«La creazione, precedente la crisi, di strutture come musei, eventi, fiere, grandi mostre ha dovuto subire una riduzione decisa e oggi non si riescono più a sopportare e a sostenere quelle dimensioni con cui erano state costruite, riducendo i budget iniziali di circa il 60 per cento.

Un terremoto che in parte sta provocando una sana reazione, una certa pulizia. D'altra parte non si può più parlare di crisi, che di solito durano circa due anni e poi si riparte, ma di un periodo storico che andrà analizzato e studiato in futuro».

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