Mettevi in posa, fermi così. Guardatemi. E ora, ascoltate la fotostoria che stiamo per raccontare. È una storia che ha dell'incredibile. Gli addetti ai lavori, nel campo della fotografia, forse la conoscono. Ma il grande pubblico, crediamo, no. Una storia esemplare per spiegare cosa sta succedendo da un po' di tempo in una certa area di pensiero dell'Occidente, dove dosi diverse, ma tutte abbondanti, di supponenza, ignoranza e ideologia si mescolano in un micidiale cocktail chiamato cancel culture, al cui confronto il «politicamente corretto» è un analcolico. Si chiama ostracismo. O censura. Della peggior specie.
La storia inizia nel 1969, quando Gian Butturini (1935-2006), bresciano, all'epoca affermato grafico pubblicitario, arriva a Londra per una fiera e si ritrova a scattare foto in giro per la città. Foto molto particolari, sia per il soggetto sia per la tecnica. Quel servizio da una parte segna il punto di svolta nella carriera di Butturini: abbandona la pubblicità, inizia il cammino del photoreportage. Dall'altra dà vita a un libro stampato in mille esemplari (costo: 5mila lire) dall'editore veronese Saf intitolato semplicemente London by Gian Butturini. Non staremo a dire come e perché - semplificando: rispetto alla Swinging London di quegli anni magici, lui sceglie di fotografare i senzatetto, i tossicodipendenti di Victoria Station e i normali londinesi al lavoro - ma il libro diventò un cult del fotogiornalismo internazionale. Tanto di culto che, essendo esaurito da decenni, qualcuno pensa a una ristampa. E quel qualcuno è Martin Parr, inglese, nome storico della fotografia, già fotoreporter della Magnum e direttore artistico del Bristol Photo Festival. Quando, nel 2007, l'anno dopo la morte di Butturini, gli capita in mano quel vecchio libro del '69, se ne innamora. Anzi, per citare le sue parole, ne rimane «entusiasta». Così propone ai figli del fotografo italiano di ristampare il libro. I figli accettano e il reprint del volume esce nel 2017 dall'editore Damiani, in tremila copie, con un'introduzione entusiasta dello stesso Parr: «Circa dieci anni fa qualcuno mi ha mostrato London di Gian Butturini. Mi fu ampiamente chiaro che avevo per le mani un gioiello trascurato».
Bene. Ora un veloce rewind.
Nel libro di Butturini compaiono due foto affiancate (le vedete pubblicate nella pagina che state leggendo, ndr). Da una parte l'immagine di una donna di colore che vende biglietti della metro, chiusa dentro il suo bugigattolo, dall'altra un gorilla in gabbia. L'accostamento, a prova di deficiente, è quello fra due esseri viventi entrambi intrappolati, lei nella prigione del suo lavoro, lui dietro le sbarre dello zoo. Stessa condizione di disumanità. Una spiegazione, peraltro, data nell'introduzione dallo stesso Butturini (il quale usa la parola «negra», perché siamo negli anni '60). Stop al rewind.
Fast forward. Nel 2019, due anni dopo la riedizione del libro, una studentessa di Antropologia dell'Università di Londra, Mercedes Baptiste Hallida, ne riceve una copia dal padre in regalo. E qui, attenzione, inizia il dramma. Anzi: il grottesco. La ragazza salta l'introduzione, non legge nulla, vede le due foto affiancate e rimane «scioccata» - così dichiarerà - nel vedere il lavoro «spaventosamente razzista» di Butturini. Ora. In un mondo normale il padre avrebbe preso la figlia per le orecchie, le avrebbe sospeso la retta universitaria e l'avrebbe mandata a lavorare nelle miniere di carbone di South Staffordshire. E fine della storia. Invece accade che gli amici della ragazza, la famiglia, altri studenti, l'Università, mezza Londra, il mondo dei social, in tanti si convincono che la ragazza abbia ragione. Sì, è vero, si ripetono, quelle foto sono razziste!
I media ci mettono del loro, e tempo pochi mesi il grottesco precipita nella distopia. I movimenti antirazzisti inglesi aizzano la protesta, il fotografo italiano viene sommerso (post mortem) da accuse e Parr - non ci si può credere - è così spaventato dalle polemiche che fa mea culpa, si dimette dal festival fotografico che dirige, pubblica le sue più imbarazzate scuse (definendo la foto in questione «offensiva e umiliante» e la propria incapacità di notarla «imperdonabile») e, addirittura, chiede all'editore Damiani che le copie rimanenti del libro siano tolte dalla vendita e distrutte. Avete mai sentito parlare di roghi di libri?
Sulla vicenda, non servono commenti. Ma ci piace riportare la dichiarazione rilasciata al Giornale da Tiziano Butturini, il figlio: «Accusare Gian Butturini di razzismo è come pensare che Gandhi sia stato un violento. Tutto dimostra che mio padre è stato davvero sempre dalla parte degli ultimi. Le foto contestate e il relativo commento dell'autore nella introduzione di London esprimono la critica empatica contro ogni sorta di segregazione».
Appendice alla storia di follia e cancel culture che avete appena letto. I figli di Butturini hanno acquistato in blocco le copie rimanenti di London dall'editore Damiani (ne sono state stampate 3mila, a oggi ne rimangono 1.700) e ora sul sito del loro archivio (www.gianbutturini.com) le rimettono sul mercato a fronte di una sottoscrizione di 40 euro a sostegno delle attività della fondazione (su eBay una copia si vende già a 90). A parere di chi scrive, ecco un atto concreto di resistenza alla cancel culture, la censura, il politicamente corretto. Parola d'ordine: «Save the Book».
E Save the Book.
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