Quei giocattoli che ci fanno tornare adulti

Il "Catalogo" di Sandra Petrignani è un viaggio nel regno degli oggetti più cari. Da Altalena a Zoo

Dalla A di Altalena alla Z di Zoo, Il catalogo dei giocattoli (Beat, pagg. 151, euro 9) di Sandra Petrignani rimanda al giardino incantato dell'infanzia che da bambini esplorammo come un labirinto sconosciuto e da grandi ci ritroviamo a rimpiangere, ma avendone smarrito il filo. Prendiamo le figurine e i tappi, con cui siamo certi di aver giocato e di cui ricordiamo perfettamente immagini e colori: ci sfuggono però il senso e la ritualità, il loro perché, e se goffamente ce li ritroviamo fra le mani non sappiamo bene che farne, resta la cenere fredda di una magia che fu calda e naturale.

Nata negli anni Cinquanta, la Petrignani appartiene ancora a una generazione che fece a tempo a giocare con i giocattoli di quella che l'aveva preceduta e ad assaporare le novità che la propria le metteva a disposizione: Barbie e la mucca Carolina, Ercolino sempre in piedi e lo scubidù... Dopo si ha come l'impressione di un salto nel buio, i giochi elettronici della modernità che stritolano i pochi soldatini e fortini superstiti. In più, è scomparsa quell'idea di gioco all'aperto in città che i bambini di quando l'autrice era bambina poterono assaporare: in piazza e in strada, nei cortili e nei giardini condominiali, da soli e in bande, sudati e urlanti, ma sempre con l'occhio teso a quel richiamo che da un balcone, da una finestra o da un terrazzo li avrebbe riportati a casa: per la merenda, per i compiti, per l'arrivo di un parente...

Nel risvolto che presenta il libro, si dice che «i giocattoli chiamati qui a raccolta ci restituiscono l'infanzia come una possibilità eterna, una bacheca colorata, allegra e scintillante, un “cosmo meraviglioso” che chiede di essere esplorato in ogni momento della vita». Non sono sicuro che sia proprio così. È naturalmente una sensazione personale, ma raramente ho provato più malinconia come nell'aggirarmi in questo catalogo del tempo perduto e che però non si trasforma mai in tempo ritrovato. C'è tutto o quasi ciò con cui ho giocato, ma non esiste più il bambino che ero e per quanti sforzi faccia, per quanto possa esercitare la mia memoria, se n'è andata per sempre la serietà del gioco e insieme la sua emozione, l'universo completamente autosufficiente in cui si svolgeva, il combinato disposto dei rituali che lo accompagnavano, l'apparente irrazionalità delle scelte. Mi viene da chiedere se, incontrando oggi il ragazzino arruffato che fui, sarei in grado di riconoscerlo e la cosa mi fa paura, proprio perché a lungo mi sono sforzato di conservare in me quel tanto d'infanzia necessaria per invecchiare con dignità.

Il pregio di Il catalogo di giocattoli per me risiede altrove, nella scrittura quasi da entomologo con cui la Petrignani smonta e rimonta i mille elementi dell'infanzia ludica, trovando sempre le parole adatte, ridando forma a immagini che ci portavamo dietro distorte dal tempo. Grazie a essa, i giochi riacquistano una sorta di fisicità, escono dal limbo dell'astrazione per imporsi nuovamente. Da donna, e da madre di un figlio, l'autrice mischia poi con intelligenza giochi d'ambo i sessi, i suoi e quelli di chi ha cresciuto, e l'occhio femminile le permette di cogliere quelle differenze che l'occhio maschile dava per scontate perché naturali. Il flipper, per esempio, non era un gioco da donne, il bigliardino contemplava l'eccezione femminile proprio perché tale («è brava»), se un maschio giocava con una bambola, in linea di massima era per affogarla, se la sorellina impugnava una pistola giocattolo vedeva la perplessità disegnarsi sul volto del fratello. Rimandavano, i giochi, all'universo dei sessi, alla consapevolezza delle diversità e infatti «è un maschiaccio», rivolto alla ragazzina scatenata, «è una femminuccia» rivolto al maschietto vergognoso, erano la riprova delle differenze, tanto più in un'età che, non avendo ancora imparato l'arte del compromesso sociale, si muoveva con crudele baldanza.
Dei sessantacinque giocattoli qui riuniti, alcuni sono degli ever-green: l'altalena e la bicicletta, la bambola e il monopattino, le biglie. Di quest'ultime la Petrignani presenta la versione colorata, «le piccole eliche di plastica gialla, blu, rosa, verde, rossa, arancione, celeste». Io mi ricordo di una variante, con dentro le fotine dei campioni del ciclismo: Anquetil e Adorni, Massignan e Nencini, Taccone e Charlie Gaul, Gimondi... Si prendeva il ragazzino più magro e lo si trascinava per i piedi affinché con il sedere disegnasse il tracciato sulla sabbia (i sederi più grassi erano usati per i circuiti tipo Vigorelli, più larghi e con le curve alte e sterminate). Si costruivano ostacoli in forma di ponti, tunnel, c'erano varie tecniche di colpire la biglia, pollice+indice, indice semplice, molta rissosità, molte scorrettezze. «Non ricordo un gioco delle biglie regolare e tranquillo» scrive l'autrice. Nemmeno io. «Le femmine venivano eliminate al primo giro e si appartavano quasi sollevate». C'era anche qui una competitività tipicamente maschile, applicata al simulacro di uno sport, il ciclismo, estraneo al mondo femminile. Fra la costruzione della pista e il suo utilizzo, si passava un intero pomeriggio e si tornava a casa sperando invano che il giorno dopo quel circuito di sabbia non sarebbe stato calpestato da orme umane.

Alla voce «Armi» bisognerebbe aggiungere pugnali e spade di plastica, i primi lanciati di sorpresa fra le cabine, le spiagge e gli ombrelloni lungo interminabili «cacce all'uomo», le seconde oggetto di duelli salgariani; alla pistola d'acqua andrebbe applicata la variante del mitra e/o fucile d'acqua, più potente nell'effetto doccia.

Della prima, la Petrignani ricorda il «grande sollazzo. Spararsi in bocca, solleticarsi la gola con lo spruzzo, dissetarsi all'improvvisata fontanella». L'infanzia aveva in sé un'idea di immortalità ed è quella incomprensibile illusione che oggi ci fa più soffrire.

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