Quel piccolo Rinascimento figlio degli anni Novanta

Dalle opere di Cattelan al moltiplicarsi dei musei come il Maxxi: il ventennio precedente la crisi è stato davvero fecondo. Eppure non ce ne siamo accorti...

Quel piccolo Rinascimento figlio degli anni Novanta

Noi italiani abbiamo proprio la difficoltà di riconoscere le cose nel momento del loro farsi, salvo poi ritornare sul tempo andato e ammettere che sì, in fondo, non era poi così male. Gli anni '80, bistrattati dall'ideologismo postsessantottino, bollati come periodo del riflusso, del disimpegno, del ludico e identificati con la figura del leader socialista Bettino Craxi, sono infine risultati una decade in cui il nostro Paese si presentava nel contesto internazionale come una nazione giovane, ricca di energia (e di denaro), sperimentale e inventiva. Prima o poi ci imbatteremo nello stesso tipo di rilettura per quel lungo periodo cominciato alla metà degli anni '90 e conclusosi nel 2009 con il manifestarsi della crisi economica in tutta la sua drammaticità.

Vogliamo parlare di cultura, e in special modo di arte visiva: come il preludio agli anni '80 fu segnato dal dramma del terrorismo, così l'inizio dei '90 vide il terremoto di tangentopoli, che portò a un'autentica paralisi del sistema e all'immediato svanire di quell'euforia contagiosa andata in scena nel decennio precedente. Si può non credere alle coincidenze, ma bisogna riflettere sulle date. Nel 1994 Maurizio Cattelan, artista asistemico, fuori dalle logiche del gruppo, voce solitaria nel panorama italiano, tanto amato quanto detestato, sbarca negli Stati Uniti ed è il primo passo di un successo planetario che lo porterà, nel giro di poco, a essere considerato tra i top mondiali. In precedenza l'arte italiana si muoveva per movimenti e gruppi, come l'Arte Povera e la Transavanguardia; da qui in poi si fa largo l'inedita (almeno per noi) figura di artista imprenditore, self made man e antiaccademico, capace di autopromuoversi con azioni fortemente incentrate sul metodo della pubblicità.

Cattelan non è che l'epifenomeno di un panorama fiorente, ricco e vario, con linguaggi che vanno dalla pittura al video, dal concettuale alla performance. E per tutti c'è spazio. Giusto per citarne solo alcuni, da Luca Pignatelli a Francesco Vezzoli, da Vanessa Beecroft a Margherita Manzelli ma ve ne sarebbero a centinaia. Nella seconda parte degli anni '90, e ben oltre il 2001 (superato in fretta il trauma dell'attentato alle Torri Gemelle), il sistema sente la fiducia e marcia a pieno ritmo. Rispetto al passato, cambia però profondamente l'atteggiamento degli attori in scena. Detto dell'artista, individuo sociale, ben inserito nella comunità, capace di parlare del proprio lavoro e anche di venderlo (o di vendersi), la mutazione genetica più profonda interessa il collezionista. Ci sono, è vero, i collectors top che battono alle aste e comprano sul mercato mondiale, ma il fenomeno più autentico è quello del piccolo-medio imprenditore che decide di investire cifre ragguardevoli e crescenti in arte. L'identikit di questo nuovo personaggio è presto fatto: giovane professionista, voglia di migliorare la propria cultura, si fida inizialmente del suo gusto per poi affidarsi a consulenti, riviste, gallerie, insomma a tutti quegli strumenti che stabiliscono le regole. Per almeno un quindicennio questo genere di collezionista ha rappresentato la linfa vitale nel nostro mondo dell'arte soprattutto per la gran quantità sparsa in tutta la penisola, anche al Sud. Prima la crisi economica, quindi il devastante sistema fiscale lo ha completamente spazzato via e negli ultimi anni, quelli di governi tecnici o delle larghe intese per intenderci (ma forse è solo una casualità), il sacrificio dell'arte media sta facendo pagare un prezzo altissimo a chi ha deciso di investirvi. Resistono le “blue chip”, inarrivabili ai più, è crollato il mercato di valori che andavano tra i 5 e i 50mila euro, trascinandosi dietro morti e feriti.

Ingenui, disattenti o preconcetti, in molti non si sono accorti che fino al 2009 stavamo attraversando un piccolo “rinascimento” italiano dell'arte. Basterebbe enumerare il numero di gallerie aperte, giovani realtà intraprendenti e dallo spiccato senso imprenditoriale, gestite come piccole aziende e con ottimi rapporti all'estero. Non fosse sufficiente, si è registrata l'esplosione del fenomeno delle fiere, esteso in tutto il territorio, dal nord Ovest a Roma, con una rete di appuntamenti che in pratica coprivano l'intero arco del calendario. Perché in un Paese piccolo come l'Italia il mercato è così ramificato? Evidentemente per la gran ricchezza a disposizione. Oggi le più forti tengono, ma con fatica, mentre le altre resistono tra mille difficoltà oppure sono lì lì per cedere. Era la forza di un mercato libero e con pochi vincoli, ora posto sotto la lente di controlli esagerati che hanno tolto vitalità.

Si dice, infine, che mai quanto durante il ventennio fascista lo Stato si era impegnato a costruire quei monumenti utili alla propaganda, e in tal senso vanno considerati anche i musei. Invece tra la fine del XX secolo e l'inizio del XXI in Italia si sono aperti la maggior parte di spazi per l'arte contemporanea, ex novo come il MAXXI di Roma o il MART di Rovereto, oppure frutto di restauri e trasformazioni (il MACRO sempre a Roma, il MADRE a Napoli).

Non che queste tendenze (e politiche) siano da ascrivere all'esecutivo o all'amministratore di turno, alla destra o alla sinistra: piuttosto a una nuova mentalità, più individualista e aperta al mercato. Se le date non ingannano, al di là delle possibili coincidenze, il quasi «ventennio berlusconiano» (chiamiamolo così, anche se ha governato anche il Partito democratico) sarà ricordato più per la moltiplicazione che per la sottrazione.

Da un po' di tempo a questa parte (dal 2009, superamento dell'esperienza di Forza Italia, crisi, governo Monti, larghe intese, ritorno di un certo dirigismo in economia) si parla più che altro di chiusure o ridimensionamenti.

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