Un romanzo serissimo (ma tutto da ridere)

"Cosa fare a Faenza quando sei morto" non si limita a prendere in giro il mondo dello spettacolo e della cultura. Il vero tema infatti è tragico: vale la pena vivere?

Un romanzo serissimo (ma tutto da ridere)

N on parlerei mai di un libro come Cosa fare a Faenza quando sei morto di Gene Gnocchi (Bompiani, pagg. 175, euro 14) se non si trattasse di qualcosa di totalmente diverso dai soliti libri scritti dai soliti personaggi pubblici.

Francamente, trovo detestabile che un conduttore tv, un comico, un attore o cantante si presentino anche come romanzieri, usando la loro notorietà come volano per vendere più copie e togliere visibilità a chi, stando nell'ombra, cerca con maggior impegno di coltivare la letteratura.

A me pare, in altre parole, che le rendite di posizione che detestiamo nei campi della politica e della pubblica amministrazione esistano e siano le benvenute dappertutto. Quando, nel 2000, partecipai al Premio Strega, a vincere fu il direttore del Salone del Libro di Torino. A nessuno (tranne me) sembrò strano che un uomo in quella posizione potesse partecipare allo Strega, così come a nessuno sembra strano che un attore brillante o un uomo politico pubblichi romanzi - con tanto di passaggi tv e copie sottratte ai veri scrittori - così come per tutti, viceversa, appare strano che un pubblico amministratore conduca un tenore di vita che il suo stipendio non gli permetterebbe.

Se ciascuno facesse solo il suo mestiere sarebbe meglio per tutti. Fai il conduttore tv? Sei un politico? Sei un'attrice porno? Niente romanzi. Oppure dimettiti, rinuncia ai contratti golosi, diventa uno scrittore e poi pubblica (se ci riesci) i tuoi libri.

Detto questo, il libro di Eugenio Ghiozzi (che è il vero nome di Gene, e che lui avrebbe voluto mantenere en écrivain , se gli editori - ignari del male che facevano a sé stessi e alla cultura - gliel'avessero permesso) si stacca nettamente dagli altri.

Perché? Perché Eugenio Ghiozzi è un vero scrittore, e Cosa fare a Faenza quando sei morto è, a dispetto del titolo, un libro molto serio. Si ride, certo, ma se è per questo che ve lo state rigirando tra le mani, in libreria, incerti se spendere o no i 14 euro, vi consiglio di lasciarlo stare.

È vero che il mondo nominato, la folla di nomi propri presenti nel libro appartiene ambiguamente proprio al demi-monde dello spettacolo in senso lato, con la sua consueta schiera di inclusi ed esclusi: ma questo si può attribuire alla necessità (sacrosanta) di comunicare, e per comunicare è necessaria una koinè, e la koinè per adesso è quella lì. Che noia vedere nominati Giacobbo, Di Pietro, i Pooh e così via. Ma qui esiste una necessità, per questo rispettiamo Eugenio Ghiozzi.

Ma c'è nel libro di Ghiozzi qualcosa di fondamentale, che trasforma questo materiale di scarto in un'opera letteraria: una sorta di orrore per la diabolica capacità di questo mondo di riempirci completamente la testa con le sue imperdibili cretinate.

Nessuno può scrivere frasi come questa, «soltanto adesso capisco nitidamente che al mondo non volevo esserci, e ne sono sempre stato cosciente un po', non del tutto» se non la pensa. Il geniale comico fa il comico per non fare l'avvocato, e non fa l'avvocato perché ha il terrore della metamorfosi della giustizia nel momento in cui diventa solo una parola e come parola agisce in un mondo (quello vero) pieno di dolore, di sangue e di morte.

Ma alla fine scopre che lo spettacolo è la stessa cosa. Ed è proprio così: i campi di concentramento non esistono più qui da noi, anche se continuano a esistere, lontani e solo per i derelitti. Ma per noi ricchi e colti europei un'altra è la strategia goebbelsiana: non più lo sterminio, ma l'occupazione incessante della mente, di cui la società-spettacolo è uno degli strumenti (ma non certo il solo).

Sorge il sospetto che Eugenio, detto Gene, abbia studiato da avvocato per non doversi mettere a fare sul serio lo scrittore. Meglio essere coscienti un po' che esserlo del tutto - perché il romanzo, se coltivato davvero, è un pessimo modo per conservare le proprie illusioni. Forse Gene ha deciso che essere un mezzo scrittore (ma quel mezzo di ottima qualità) poteva aiutarlo a vivere un po' meglio, risolvendo a suo modo il dilemma di tutti quelli che, come lui e come me, non sono adattissimi a vivere.

Il libro consiste insomma in una lunga serie di tentativi di uscita da uno stato di nazismo mentale. Attraverso una specie di oblò noi vediamo, a sprazzi, separato dal solito girotondo, il modo reale, che nulla ma proprio nulla ha a che vedere con quel mondicino che (come diceva Marx) pensa sé stesso come se fosse il Tutto.

Come uscire? Come tornare per sempre là fuori?

Cosa fare a Faenza quando sei morto è un libro che affronta questo tema dell'occupazione mentale e dell'uscita, che poi è anche il tema del suicidio.

Non che il libro sia perfetto: le pagine inutili abbondano, le risate si/ci spaesano.

Tuttavia: «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia», diceva Camus.

Be', Gene mi sembra uno dei pochi ad aver capito davvero il senso di queste parole.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica