Saggistica

Non sappiamo se Ludwig Wittgenstein fosse un amante dei gatti. Sappiamo però che l’autentico amante dei gatti può trovare in un famoso aforisma del filosofo austriaco il «manifesto» della gattosofia: «Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò di cui non si può dire, si deve tacere». Ben detto. Siccome i gatti sono generalmente tipi di poche parole, ciò che hanno da dire lo dicono chiaramente (ed è colpa nostra se non li comprendiamo), mentre su ciò che non possono dire, saggiamente si astengono dall’aprir bocca.
Ma, quando tacciono, perché tacciono? Non capiscono? Oppure capiscono ma sanno di non poter condividere con altri (noi, per esempio) ciò che capiscono? O semplicemente se ne fregano di ciò che accade loro intorno? L’uomo, da alcuni millenni, propende per la terza risposta, quella più facile da gestire, anche in considerazione del fatto che dare del cretino a un gatto (magari nero...), porterebbe male («non si sa mai come reagiscono»: altro luogo comune destituito di ogni fondamento), mentre, al contrario, considerarsi a lui inferiore sarebbe una vergognosa diminutio, per l’essere solennemente autoproclamatosi il più razionale del creato. Quindi una vulgata che ha molte più vite delle sette abitualmente attribuite ai felini domestici vuole che il gatto sia uno che si fa i fatti propri, che guarda tutto dall’alto in basso, che sia un profittatore, un opportunista, un succhiaruote, un cinico e via umanizzando in negativo.
Ovviamente il vero gattofilo, cioè chi sa collocarsi sulla lunghezza d’onda di quella particolare e sfuggente sensibilità, rifugge da tale visione oscurantista e conservatrice: apprezza allo stesso modo il comodo tran-tran (o ron-ron) quotidiano come la zingarata; dorme quando gli altri sono indaffarati ed è sveglissimo quando gli altri dormono; fa le fusa soltanto a chi le merita ed estrae gli artigli di fronte ai soprusi. E poi i gattofili sono uomini e donne di cultura nel senso più alto del termine, anche se non necessariamente dotti. Il loro è il sapere esistenziale, quello del savoir vivre, del buonsenso e del buoncuore, e, soprattutto, amano gratis, magari fuori tempo e fuori luogo, ma sempre gratis, di «pancia» e «di testa».
In Gatti di biblioteca, di Michèle Sacquin (Officina Libraria, pagg. 208, euro 25) il gattofilo Docg, a Denominazione di origine controllata e graffiata, si specchia come un micio sornione spaparanzato sul divano dopo un’abbuffata di croccantini o come un randagio appisolato sotto una barca: e si vede esattamente com’è. Nella «Prefazione», l’accademico di Francia Pierre Rosenberg dice che «i gatti sono cartogenici», nel senso che fra i libri si trovano come i loro nemici topi nel formaggio: comodissimi e beati. E l’autrice, conservatrice alla Bibliothèque nationale de France, non fa che confermarlo attingendo proprio dal suo «terreno di caccia». Codici miniati e cinquecentine, trattati di zoologia e incisioni settecentesche, ex libris e acqueforti, stampe giapponesi e bozzetti in bianco e nero, tutti riprodotti con eleganza tipicamente felina, si acquattano ovunque per illustrare poesie, brani di romanzi o riferimenti storici, dall’antico Egitto dove Bastet, la divinità lunare preposta al parto, assunse sembianze da gatta, alla bohème parigina, anch’essa devotissima a questo animale, assurto a simbolo di libertà.
Innumerevoli sono gli scrittori e i pittori iscritti al partito gattiano. Due nomi su tutti: Pierre Loti, nel 1908 eletto presidente de «La Patte de velours» (La zampa di velluto), una società per la protezione dei gatti; e Tsuguharu Foujita, del quale è raro trovare un’opera non ingentilita dall’adorata presenza. Presidente onorario del partito è François-Augustin Paradis de Moncrif (1687-1770), autore di Storia dei gatti, il quale diceva: «è sui tetti che faremmo bene ad andare a cercare l’educazione». Il suo contemporaneo Georges-Louis Leclerc, alias conte di Buffon (1707-1788), invece, è il leader dei nemici giurati dei gatti: quando si dice il buio dell’illuminismo... Ma c’è anche chi esagera per troppa passione. È il caso di Paul Léautaud (1872-1956). Il 29 aprile 1936 a un contadino scrisse questa letterina: «Signore, leggo sui giornali l’incidente che vi è appena occorso. Volendo uccidere un gatto, avete ucciso il vostro bambino. Ne sono entusiasta. Ne sono felicissimo. Lo trovo perfetto.

Questo vi insegnerà a essere a tal punto crudele nei confronti di una povera creatura. Ancora tutte le mie congratulazioni». Anche in gattosofia l’integralismo dà soltanto frutti velenosi e chi li coltiva meriterebbe di morire da solo. Come un cane.

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