Teschi, mostri e crudeltà. Hirst colleziona ossessioni

Inquietante la galleria privata dell'artista più famoso (e ricco) del mondo: fra capolavori e cianfrusaglie

Teschi, mostri e crudeltà. Hirst colleziona ossessioni

da Torino

Brividi di freddo nella schiena corrono alla Pinacoteca Agnelli di Torino, ma non per l'arrivo dell'inverno. Mentre a pochi metri si celebra la 19ª edizione di Artissima, la più contemporanea delle fiere d'arte in Italia, nel gioiello della Famiglia sabauda va in scena «Freedom Not Genius», la sorprendente collezione privata di Damien Hirst, che oltre a essere l'artista più ricco e controverso del pianeta, è anche un ossessivo raccoglitore di oggetti, quadri, sculture e installazioni, tra capolavori costosissimi (Schwitters, Bacon, Giacometti, Warhol, Picasso) e cose trovate a poco prezzo nei mercatini o su eBay. Messi in fila un centinaio tra le migliaia di pezzi selezionati dalla curatrice Elena Geuna e conservati nelle sue diverse proprietà, a Londra e nel Devon, ne vien fuori un autoritratto malinconico più che inquietante, ansioso più che provocatorio, dove il filo conduttore è il tragico senso della morte a puntellare un'esistenza dove non tutto fila liscio.

«Io credo nella libertà, ma non credo nel genio. Non penso che gli artisti siano persone speciali», chiosa Hirst per presentare la sua Murderme Collection, storpiatura di un nome che fa venire in mente l'omicidio, l'assassinio. In effetti tutto appare cristallizzato, fermato in un tempo eterno quasi ad allontanare il senso della fine, proprio come la bellezza e il terrore congelati nei suoi animali in formalina e nei dipinti con le farfalle. Oltre alle opere acquistate in circa vent'anni, le prime scambiate con gli amici del college Sarah Lucas e Angus Fairhurst, grande artista suicida la cui fine gettò Damien nello sconforto così come la morte improvvisa di Joe Strummer, il leader dei Clash, sono gli oggetti a determinare il mood di questa ricerca: i teschi, frammenti di quella Vanitas che parte dalle nature morte del '600 e include i crani anatomici di diverse epoche o elaborati da colleghi; gli animali impagliati (uccelli, gatti, pipistrelli, conigli) che formano un bestiario immobile come da sezione tassidermista di un museo di scienze naturali.

La morte attrae o si tenta di esorcizzarla? L'uno e l'altro, e anche nelle sale dedicate alle passioni artistiche di Damien l'ambiguità resta. Nella prima sfilano i suoi compagni di studio (Emin, Whiteread, Cerith Wyn-Evans), una generazione che ha goduto di una fortuna strabiliante ma che già leggiamo con la distanza del tempo che passa. Nella seconda sala Hirst presenta i maestri europei fondamentali per la sua arte, e accosta ai colossi citati i migliori esponenti della Swinging London degli anni '60, come Peter Blake e Richard Hamilton, ovvero il trait d'union fra l'arte contemporanea, la musica dei Beatles e dei Rolling Stones e quei mutamenti sociali che non ha vissuto in diretta ma che sono entrati nel suo Dna.

Seguono i grandi amori dell'arte americana, comprati quando sono arrivati il denaro e la fama, a esplicitare la rivincita dell'ex ragazzo che dalla periferia di Leeds è partito alla conquista del mondo: un Car Crash di Andy Warhol, un neon di Bruce Nauman, i basket balls sospesi nel liquido di Jeff Koons, diversi lavori di Richard Prince, prototipo dell'artista di successo negli anni '80, su cui Damien racconta un gustoso aneddoto. «L'ho chiamato tanti anni fa nel cuore della notte e non sapeva chi fossi. “Ciao Richard, non mi conosci, sono Damien Hist, mi piacerebbe tanto fare un'intervista con te per il mio catalogo all'ICA”. E lui: “Non so assolutamente chi sei o cosa fai, quindi non posso accontentarti, ma buona fortuna!”».

Si entra infine in una meravigliosa e inquietante Wunderkammer, dove gli animali sono mischiati alle sculture a palloncino di Koons, al gorilla sdraiato di

Fairhurst, alla sadica giostra di Mat Collishaw dove i bambini picchiano duro la natura. L'infanzia è tragica, crudele e violenta: l'innocenza, se mai c'è stata, è fuggita via e il mal di vivere, forse, comincia proprio da lì.

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