Una vita spericolata per raccontare il romanzo del rock

Da Cash sino a Cobain: Nick Kent, firma storica del giornalismo inglese, svela fatti e misfatti di alcuni giganti della scena pop dell'ultimo mezzo secolo

Una vita spericolata per raccontare  il romanzo del rock

Scrivere di rock con lo stesso piglio, irriverenza e cattiveria che avrebbe avuto, nel XVI secolo, Giorgio Vasari. Se il noto autore delle Vite ha compilato il primo strumento di critica militante utile sì a farci conoscere la storia dei pittori rinascimentali e manieristi, ma soprattutto a sputtanarne i vizi e le peggiori abitudini, l'inglese Nick Kent, firma storica del giornalismo musicale per Times, Guardian, NME e Mojo, è rimasto tra gli ultimi interpreti di quella scrittura molto aderente alla realtà che gli angloamericani preferiscono ai meri esercizi di critica fine a se stessa (che poi si risolvono in una recensione). Kent, insomma, è della scuola di Lester Bangs e di Jon Savage, quella dove il critico finisce per diventare compagno di strada dei musicisti. È diverso da Greil Marcus, titolare ormai di un profilo accademico; ed è diverso da Simon Reynolds, i cui libri, pur avvincenti, sconfinano spesso nel ritratto sociologico.

The Dark Stuff. Scritti sul rock, in uscita per Arcana (pp. 378, euro 22; nel 2011 aveva pubblicato Apathy for the Devil), è una raccolta di biografie di divi del r'n'r accomunati tra loro dall'immenso talento e dall'altrettanto spiccata propensione ad autodistruggersi. Infatti una buona metà di loro riposa al cimitero. Alcune di queste vite e malavite si snodano come un romanzo, ad esempio quella di Brian Wilson, leader dei Beach Boys, dominata dall'inquietudine, dall'insoddisfazione, dalla paura del fallimento. Altre sono brevi e intensi squarci che dimostrano la capacità di Kent di riassumere il senso di un'esistenza in poche pagine. E talora il dramma umano può diventare esilarante, come nel caso di Roky Erickson, frontman dei 13th Floor Elevator, talmente fatto da non riuscire nemmeno a rispondere alle domande di un'intervista.

Kent racconta la discesa negli inferi di Syd Barrett, tratteggiandone il ritratto con la maestria di un pittore. Del resto la triste vicenda dell'allora dimenticato chitarrista fondatore dei Pink Floyd fu uno dei suoi scoop mondiali. Syd all'inizio: «Gentile. Educato. Altoborghese. Cambridge. Barrett era nato in quell'atmosfera rarefatta, uno dei cinque figli del dottor Max Barrett. Fu sempre uno studente popolare e coscienzioso, dotato artisticamente, e le ragazze lo trovavano attraente». Pochi anni dopo, il successo con i Pink Floyd, quindi il crollo: «Teneva la testa leggermente piegata all'indietro, e i suoi occhi si annebbiavano e si gonfiavano. Poi ti fissavano e al contempo sembravano attraversarti». Sullo sfondo le droghe, l'autentico filo conduttore di tante storie buttate via.

Kent smonta il mito Brian Jones, bello e biondo, creatura metà angelo-metà demonio, mal sopportato dagli altri Stones: «Sprecò il suo talento naturale e dopo i primi mesi del 1965 raramente suonò di nuovo la chitarra su un disco dei Rolling Stones, costringendo incessantemente Keith Richards a reincidere le sue parti perché lui era troppo sballato, o semplicemente era malato e non si era presentato». Di Lou Reed racconta gli anni sprecati, dopo l'uscita dai Velvet Underground, «ma andiamo, Lou, datti una sistemata e non essere così patetico». La conversazione tocca il fondo grottesco quando Reed cerca di spiegare la sua nuova passione per la lirica. Invece Iggy Pop, che firma la prefazione al libro, se non ha sette vite come i gatti ne ha almeno quattro. «L'ultima volta che ci siamo visti è stata alla fine dell'autunno del 1993, e aveva un aspetto magnifico, con i capelli lunghi e lucenti come quando l'avevo incontrato la prima volta, vent'anni prima. Si tuffa ancora nel pubblico ai concerti, continua a fare piroette e a contorcere la faccia prima di spiccare il volo». Kent è stato membro dei Sex Pistols, inventori del punk. Non ne ha serbato un gran ricordo: «bastardi ingrati sempre pronti a pugnalarti alle spalle».

Impietoso il ritratto di Sid Vicious, definito uno stupido: «era solo un altro che giocava sporco», un relitto umano diventato una leggenda.

Gli anni '70 sono lo scenario in cui Kent ha espresso in pieno la sua militanza, devastandosi anche lui come i suoi «amici» musicisti. Ma essendo sopravvissuto (oggi vive a Parigi con la moglie e il figlio, non tocca più alcol e non si droga) si permette giudizi molto tranchant che magari faranno inorridire i fanclub delle rispettive rockstar. Ogni tanto lo piglia la pietà umana e allora si dispiace sinceramente per il suicidio di Kurt Cobain. «È uno scenario comunque straziante, perché questo ragazzo era un padre, un marito e un figlio, e la sua decisione di abbracciare il vuoto ne lascerà uno incolmabile nelle loro vite, che non sparirà con la stessa velocità di tutti quei dozzinali titoli dei giornali».

Apprezza molto Prince, più incisivo di Michael Jackson, e dedica un giusto tributo a Johnny Cash «probabilmente il cantautore country più carismatico dai tempi di Hank Williams, mentre le sue canzoni e il suo atteggiamento ribelle sono stati un influsso continuo e fruttuoso sulle carriere di purosangue del rock come Bob Dylan, Neil Young e Bruce Springsteen».

A sorpresa, considera Eminem come la cosa più trasgressiva apparsa con il nuovo millennio. Il campione del politicamente scorretto gli piace perché incarna l'incoscienza trasgressiva del vecchio r'n'r che Kent si porta dietro dalla giovinezza.

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