Dagerman contro i compagni del conformismo

Daniele AbbiatiStig Dagerman era un nobile scrittore, nobile e proletario, nobile perché proletario. Anche se il suo proletariato non lo visse in fabbrica, bensì nell'infanzia, quando a interessarsi di lui non furono mamma e papà, distratti da altro, bensì i nonni contadini. Socialista per censo e anarchico per vocazione, era uno studentello quando al giornale Storm («L'assalto») curava persino i cruciverba, e divenne rapidamente uomo sulle colonne di Arbetaren («Il lavoratore»).E proprio da quelle colonne sono tratti gran parte degli articoli riuniti ora da Iperborea sotto il bellissimo e utopistico titolo La politica dell'impossibile. Dove questa gloria scomoda delle lettere svedesi, morto suicida a 31 anni nel 1954, se la prende soprattutto con i... compagni che sbagliano, cioè con quella sinistra che, durante e subito dopo la seconda guerra mondiale, commette gli errori strategici e di concetto destinati a durare, nella Svezia dello Stato sociale e altrove, per tutto il Novecento. «La concezione popolare secondo cui tutto il pensiero reazionario esistente sarebbe circoscrivibile ai cosiddetti reazionari si è spesso rivelata pericolosa», sostiene. Perché è di fatto «reazionario» l'atteggiamento di «certi presunti rappresentanti del popolo» secondo i quali «la poesia deve essere l'annuncio pubblicitario del mondo nuovo». Al popolo non serve la retorica della pace, serve cultura. «Certo, anche tra gli operai c'è un'élite culturale che offre un panorama gradevole e rassicurante alle finestre delle redazioni, ma una maggioranza spaventosamente grande versa nella miseria intellettuale o, per essere più precisi, in una totale assenza di bisogni culturali che è indegna di esseri umani che vivano in una democrazia». Come indegno, sostiene Dagerman, è il velo di silenzio steso sui crimini del comunismo sovietico. E a nulla vale l'«inflazione della protesta». «Nella guerra fredda un'ipocrita propaganda pacifista è una delle armi più efficaci».

Stig Dagerman era un nobile scrittore (si vedano i racconti di I giochi della notte e di Il viaggiatore, e i romanzi Bambino bruciato e L'isola dei condannati e altro - manca ancora, in italiano, Il serpente) che accusava se stesso di aver «raggiunto ingegnosi compromessi, non tanto con la propria coscienza, quanto con il proprio coraggio e il proprio gusto» una volta ottenuto il successo. Per questo scelse di andarsene.

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