Un dannunziano che cercava la bella revolución

«I ragazzi del Che» di Ludovico Incisa di Camerana smonta alcuni luoghi comuni sul guerrigliero. Che qui appare simile a un legionario o a un terzomondista il cui mito ha attecchito in Occidente

Perché vale la pena di leggere I ragazzi del Che. Storia di una rivoluzione mancata (Corbaccio, pagg. 404, euro 20), l’ultimo saggio di Ludovico Incisa di Camerana? Perché questo libro smonta un paio di importanti luoghi comuni della mitologia di sinistra e rimonta il Che in una configurazione inedita, almeno per il pubblico italiano. Incisa di Camerana, diplomatico di lungo corso, è uno dei maggiori esperti italiani di America latina ma, come ci racconta, nel 1968 fu incaricato dall’allora ministro degli Esteri di seguire le vicende della Contestazione, e così nei decenni s’è costruito una solidissima conoscenza della storia del movimentismo giovanile.
In queste pagine Ernesto Che Guevara somiglia più a un legionario andato a cercar la bella vita e la morte onorevole con D’Annunzio che a un rivoluzionario burocratizzato e sovietizzato. Ed Evita Perón, mai troppo riscoperta madonna delle plebi, assume le forme de «il Che con la gonna», la compagna ideale in questa coppia di icone che ne fa gli ultimi eroi del giovanilismo nel XX secolo. Saranno loro gli eroi di quella parte di gioventù, asserragliata nelle università e investita dalla grande ondata del benessere europeo e della modernizzazione sudamericana, che avrà l’utopica pretesa di rovesciare il sistema portandosi appresso operai e contadini.
Bisogna leggerlo, questo libro, per prepararsi bene a fronteggiare il diluvio di pubblicazioni che l’anno prossimo accompagneranno il quarantennale del Sessantotto. È noto che gli europei, e gli italiani non ne parliamo, avvolgono il Sessantotto nell’aura di un’inimitabile rivoluzione politica e di costume, un «evento» - per dirla con Alain Badiou - originale e irriproducibile come la Comune di Parigi. Questa forma mentis, costantemente legittimata da quella buona maggioranza di intellettuali e giornalisti che proprio nel Sessantotto s’è fatta le ossa, trasforma la Contestazione in uno strumento di monopolio del giovanilismo.
Il cinquantenne che è ancora convinto dell’assoluta e irriproducibile originalità dei suoi vent’anni dia un’occhiata al manifesto che gli universitari presentano a Córdoba, la Roma d’Argentina. Il «momento eroico» e libertario degli studenti cordobiani è datato 1918, quando le trincee europee sono ancora zuppe di sangue e l’avventura fiumana è di là da venire: «I dolori che ci restano sono le libertà che ci mancano». E poi a sedare la rivolta arrivano i fucili dell’esercito, non le marce pacifiche dei gollisti sotto l’Arco di Trionfo che hanno assicurato la fama di Daniel Cohn-Bendit o le scazzottate davanti alla Statale di Milano che hanno regalato la pensione a Mario Capanna. Scrive Incisa di Camerana: «Comune agli studenti latinoamericani diverrà l’ideale dell’università come “repubblica in microcosmo”, donde il reclamo di diritti ignoti ai colleghi nordamericani ed europei» che arriveranno dopo, molto dopo, alle medesime rivendicazioni antiautoritarie.
Lo stesso cinquantenne, poi, dia una veloce scorsa alle lotte in nome del «potere giovane» che divampano nel 1934 nel Catete, il quartiere universitario di Rio de Janeiro, quando in Europa solo il fascismo italiano con i Guf s’interessa del destino delle future avanguardie intellettuali. Primo luogo comune da sfatare: il Sessantotto divampa con qualche decennio di anticipo. Trentaquattro anni prima del Maggio francese - che in sostanza ripete e inconsapevolmente ricicla materiali e suggestioni prodotte altrove, e molto prima, tra l’Argentina e, come ha scritto anni fa Claudia Salaris, la Fiume dannunziana - gli universitari brasiliani tracciavano le coordinate della lotta contro la dittatura che li avrebbe accompagnati generazione dopo generazione, contagiati dalla scorciatoia della lotta rivoluzionaria, fino alla democratizzazione degli anni Ottanta.
Di «anni formidabili» la Latinoamerica ne ha passati tanti, forse troppi. La rivoluzione cubana e l’avvento del castrismo è uno dei capitoli, certo il principale, di una storia più lunga e complessa che si propaga come una scossa lungo l’intero asse dell’America centrale e meridionale tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Castro dichiara chiusa l’esperienza della «guerra rivoluzionaria» nel 1993, ma già da tempo s’è spento quel furore combattentistico che ha unito i giovani dal Guatemala al Cile, dal Salvador sandinista all’Argentina social-peronista, dal Messico alla Colombia. I «ragazzi del Che», gli studenti del ceto medio intellettuale, ripongono le armi contro i regimi dittatoriali che hanno combattuto opponendo violenza a violenza, e sperimentando l’esperienza straniante della guerriglia urbana.
Ma qual è il tratto comune che unisce queste generazioni, e di cui ha dato una versione anche Toni Capuozzo nel suo recente Adiòs (Mondadori)? Qui casca un altro luogo comune, tipico della sinistra terzomondista: l’edificazione del socialismo c’entra poco o nulla in una «rivoluzione studentesca» che «in quanto tale è stata intellettuale, romantica, populista, temporanea e ha accompagnato il passaggio delle nuove generazioni del ceto medio a un cambiamento radicale dei costumi, specialmente dei giovani, ragazzi e ragazze, che prendono le armi mentre smettono i vestiti della domenica per indossare i blue jeans e le minigonne». Sono gli studenti, in qualche caso assieme ai militari dei gradi inferiori, a combattere i sistemi dittatoriali burocratico-militari, mentre le masse operaie e contadine stanno a guardare, non partecipano, qualche volta anzi reagiscono con ostilità. Sono il giovanilismo, il volontarismo, «la modernità, un’idea comune ai paesi occidentali», e non l’ideologia del socialismo collettivista, la cifra del movimento giovanile del Sessantotto latinoamericano.
Ecco il paradosso: mentre qualche ragazzetto o qualche intellettuale amante dell’esotismo come Giangiacomo Feltrinelli o Régis Debray guardava al foco guerrigliero per imparare a fare la rivoluzione internazionalista, gli studenti sudamericani provano a prendersi il potere per realizzare nei loro Paesi l’idea occidentale della modernità e della modernizzazione nazionale, quando non nazionalista. C’è un passaggio riportato dall’autore che spiega perfettamente questo paradosso, quando il salvadoregno Rubén Zamora - siamo nel 1994 - confessa di avere un complesso di colpa nei confronti della sinistra europea «perché, prima il Vietnam poi noi, abbiamo contribuito a sviarne l’attenzione dal principale obiettivo che era quello di trasformare la propria società, presentandole il Terzo mondo come centro delle proprie preoccupazioni». Il terzomondismo diventa il «paradiso perduto» e il cimitero delle illusioni della sinistra europea, sorda e cieca di fronte al sogno degli studenti latinoamericani che invece vogliono importare l’Occidente e la modernità in casa loro.
In fin dei conti lo stesso Che Guevara, il simbolo dei simboli, era un universitario della classe media argentina. Era un terzomondista il cui mito ha invece attecchito in Occidente. Era un romantico, un vitalista come Marinetti, Malraux o Lawrence d’Arabia che ha pagato con la vita l’errore di guardare a Oriente e non a Occidente, intestardendosi nel trasportare «due, tre Vietnam» nella Latinoamerica. Lo stesso Incisa di Camerana ci conferma che, se fosse stato in Europa, il Che «probabilmente sarebbe stato un ardito sulle trincee del Monte Grappa, e poi sarebbe andato a combattere con D’Annunzio a Fiume o a fare la marcia su Roma, per poi darsi al frondismo. Forse c’è stato un “Che” europeo e nazionalista, ma non l’abbiamo saputo scoprire».

Abbiamo scoperto, invece, che i «ragazzi del Che» non erano alieni terzomondisti, ma una costola della grande rivoluzione dei costumi, libertaria e modernizzatrice, che ha invaso le società occidentali prima di essere inghiottita dall’ideologia.

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