Il «diamante» Barrett, volto dell’assenza

A Londra una mostra dedicata al fondatore celebra la travagliata storia della band

Il «diamante» Barrett, volto dell’assenza

Vittorio Macioce

Estate del 1967. Il suono arriva da un vago oceano nell’universo. Il basso di Roger Waters pulsa a intervalli regolari. È l’unica connessione radio con la terra. È un sonar che sullo spettroscopio appare come una intensa luce verde. Si alza il canto solenne della chitarra di Syd Barrett. È un lamento disperato che vaga in un cosmo senza orizzonte. Il drumming di Nick Mason è forsennato, tragico. Le tastiere di Rick Wright tacciono. Non c’è speranza in questo naufragio. «Vischio e verde limpido. Le lotte tra l’azzurro che un tempo conoscevi. Le stelle possono terrorizzare», dice Barrett. È Astronomy Domine, la prima traccia di The Piper at the Gates of Dawn.
Il «Redferns Music Picture Gallery» è al numero tre di Bramley Road a Londra. È qui che fino al 25 aprile c’è la mostra che celebra l’avventura dei Pink Floyd. Il manifesto all’ingresso mostra in grassetto Shine on you crazy diamond. È il titolo. C’è una foto di Andrew Whittuck che racconta quell’estate di quasi 39 anni fa. Il volto di Syd è coperto da un cono d’ombra, s’intravedono solo gli occhi cerchiati di nero, come un animale della notte, come un vampiro eterno, e le sue labbra rosse. Le ombre sono solcate da sfere verdi irregolari come stelle impazzite. L’esplosione psichedelica è solo l’espressione cromatica dell’immensa solitudine dell’umanità. È questa la trama secca che accompagna il viaggio schizofrenico di Sid Barret, della sua anima di pazzo diamante e dei Pink Floyd.
Le rovine di Pompei e quattro persone che suonano. Non c’è pubblico. Solo note. È lì, forse, che in Pink Floyd hanno davvero trovato se stessi. È il senso della morte che piomba sull’umanità, l’assenza siderale, la rinuncia all’io per perdersi in un cosmo vuoto, l’eterno tema dell’incomunicabilità. È lì, nell’anno di grazia 1971, la genesi di ciò che tornerà con The Dark Side Of The Moon e con The Wall. Pompei è la loro casa metafisica. I Pink Floyd sono quattro uomini e un’assenza, un ombra. Syd Barrett si è perso nei suoi troppi mondi ed è rimasto a vagare senza rotta in un buco nero di acido lisergico. Al suo posto c’è l’amico d’infanzia David Gilmour, clone saggio e meno avariato di un diamante.
Syd è il vero protagonista della mostra londinese. È l’amico tradito, il capitano sepolto, il pezzo mancante, il vuoto che non si sa riempire, il volto dello spleen baudelairiano. È Sid in ginocchio con gli occhi che guardano un cielo troppo pesante. È Syd sulla scala antincendio con gli occhi spenti, indifferente agli equilibrismi da clown di Waters, in bilico sul passamano di ferro arrugginito. «E ti hanno portato a barattare i tuoi eroi con dei fantasmi», diranno i suoi compagni in Wish You Were Here. Se lo videro arrivare proprio quel giorno negli studi di Abbey Road, mentre registravano. «Non ricordo quale pezzo stessimo registrando - raccontò Gilmour - non ricordo neanche chi fu il primo a riconoscerlo né quello che ci siamo detti. Ma è assolutamente vero: Syd comparve dal nulla proprio in quel momento». Non si videro più.
I Pink Floyd sono stati gli ultimi argonauti. Una ciurma alla ricerca di un Dio che non esiste. Mason ha sintetizzato il suo viaggio sulla nave Floyd in poche frasi: «Ho lavorato per più di 30 anni quasi sempre da marinaio semplice. Ho prestato servizio sotto capitani severi.

Il pazzo capitano Barrett è stato il primo, i suoi occhi accesi da leggende di tesori e strane visioni quasi ci hanno portato al disastro, fin quando un ammutinamento ci ha posti sotto il comando del crudele Roger. In seguito Roger sarebbe sceso con noncuranza dalla passerella, per essere sostituito dall’esperto lupo di mare Gilmour». Non hanno mai toccato terra.

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