Il dibattito sull'Unità d'Italia:  giusto omaggio o troppa retorica?

L’amor di Patria ha unito il Paese. Ma, per Carlo Maria Lomartire, nelle celebrazioni c'è stato un eccesso di retorica. Tu cosa ne pensi? SONDAGGIO

Il dibattito sull'Unità d'Italia:   
giusto omaggio o troppa retorica?

Confessiamolo: nessuno di noi, a sera inoltrata, è riuscito a riporre subito il tricolore. L’abbiamo lasciato lì, legato alla ringhiera del terrazzo o fermato sotto i vasi del davanzale, perché questo strano gioco dell’orgoglio nazionale ci ha un po’ preso il cuore. Solitamente ci coinvolge per un gol della Nazionale o per una regata di Luna Rossa, per un gran premio della Ferrari o per un tappone al Tour de France, ma in quei casi è troppo inquinato dal tifo perché davvero lo si possa considerare tanto nobile. Questo 17 marzo è tutto diverso: nato tra mille difficoltà e duemila diffidenze, osteggiato e deriso dalle più remote piccinerie, è cresciuto piano piano dentro di noi, senza che nemmeno ce ne accorgessimo, fino a fiorire rigoglioso in un’indimenticabile giornata di vera festa popolare.

E lasciamoci andare, per una volta. Non esitiamo ad ammetterlo. Senza timori e senza pudori, è bello dire che un giorno di sana retorica fa bene all’umore e pure alla salute. Per qualche ora, ci siamo sentiti tutti migliori. Meno intossicati, meno acidi, meno lugubri. Il tricolore sui palazzoni e sulle villette a schiera, il tricolore sui municipi e sui campanili, il tricolore sulle scuole e sugli asili, il tricolore sui tram e sulle vetrine, il tricolore sugli zainetti e sui baveri dei nostri vestiti. Sono esplosi botti, si è sentito Mameli in tutti gli stili, ha diretto Muti e hanno cantato i cori alpini. Le televisioni hanno dipinto di tricolore i loro loghi, persino le radio più esterofile e giovaniliste hanno inzuppato il biscotto nel simpatico rito della retorica nazionale. Che giornata folle e particolare. Mai si era respirato uno spirito così autenticamente e spontaneamente italiano. Certo di feste importanti ne abbiamo altre, ma mai siamo riusciti a sentirle davvero feste universali. Si comincia l’8 marzo: tutti siamo ovviamente per le donne, ma ogni volta diventa immancabilmente una festa femminista. Poi c’è il 25 aprile: è la liberazione di tutti, ma diventa la festa personale dei partigiani comunisti. Quindi il Primo maggio: è la festa di tutti i lavoratori, anche e soprattutto di quelli che lo sognano, ma di fatto è da sempre una festa operaia. E poi il 2 giugno: è una festa bellissima, ricorda quell’idea grandiosa che è una repubblica democratica, ma stranamente si riduce solo ad una parata lungo i Fori Imperiali. Tutte feste serie e prestigiose: ma tutte feste di parte. Feste di qualcuno. Feste appaltate, manipolate, privatizzate.

Non so bene che cosa sia capitato stavolta. Credo che nessuno possa spiegarselo compiutamente. Per la prima volta, davvero, la festa ha coinvolto il popolo e ha rallegrato il popolo. Naturalmente il 17 marzo non cancella nemmeno uno dei nostri problemi, antichi e nuovi, ma non è compito di una festa rimuovere le grane: è già molto se la festa risolleva e ricrea uno spirito, fosse anche cuocendolo a bagnomaria nella retorica più umile e più plebea. Conosciamo la consuetudine: c’è la retorica ufficiale e imposta, che inevitabilmente diventa subito vuota e barbosa, superflua e inutile. Improvvisamente, scopriamo la retorica spontanea e sanguigna, senza orpelli e senza ipocrisie: una bella bandiera al davanzale, un bell’inno un po’ stonato, e via con l’orgoglio di sentirsi finalmente qualcosa, qualcosa di unico e di diverso da tutte le altre cose del mondo.

In una giornata così, è tornata inevitabilmente alla mente la signora Marcegaglia, a suo tempo preoccupatissima per il calo di fatturato, come se fosse l’unico valore sacro e degno di una nazione. A cose fatte dovrà ammetterlo, la presidente di Confindustria: non abbiamo perso tempo, non abbiamo buttato soldi. Sono altre le occasioni, troppe e ovunque, in cui perdiamo tempo e buttiamo soldi. Usciamo dal nostro primo 17 marzo con una sana convinzione: per quanto ci sia costato, questo bagno di retorica resterà nella memoria come una spesa fatta bene.

La ricorrenza ha un unico difetto: purtroppo, cade una volta ogni 150 anni. Ora si ricomincia con il solito circo e il solito bestiario. Dev’essere per questo che nessuno, a sera, ha trovato il coraggio di ammainare subito il tricolore dal terrazzo.

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