Dino De Laurentiis, il regista dei registi da Oscar

Dino è scomparso ieri a Los Angeles, aveva 91 anni: napoletano verace, ha passato metà vita e carriera negli Usa Ha prodotto capolavori come «La grande guerra», «Il federale», «La strada». Un occhio all’arte, l’altro al profitto

Dino De Laurentiis, il regista dei registi da Oscar

La globalizzazione c’era già, ma senza chiamarsi ancora così, quando Agostino De Laurentiis, vulgo Dino, lasciò Roma per Los Angeles, dove ieri s’è spento.
Adolescente, De Laurentiis pensò di recitare. Ebbe piccoli ruoli nei film di Camerini, Mastrocinque e Poggioli. Gli bastarono per decidere che non avrebbe commerciato nella pasta, come il padre. Ma, come attore, era piccolo e ciò l’avrebbe relegato in ruoli di comprimario, che non gli bastavano. A ventuno anni non si produce un film,

L’ultimo combattente di Piero Ballerini (1940) senza avere una certa idea di sé. Si ricorda più comunemente il De Laurentiis del dopoguerra, collaboratore del finanziere Riccardo Gualino. Difficile trovare un altro maestro così nel ramo, specie per realizzare un film comunista come Riso amaro di Giuseppe De Santis. La lotta delle mondine lasciò ovviamente freddo De Laurentiis, ma lo scaldò chi pareva viverla: Silvana Mangano. Tanto che la sposò.

E il neorealismo, allora? De Laurentiis lo liquidava così: i teatri di posa di Cinecittà erano ridotti a ricovero di sfollati, perciò si doveva girare nelle strade. E in fondo uno dei rari road-movie italiani l’ha prodotto lui: è Il federale, scritto da Castellano & Pipolo, diretto da Luciano Salce e interpretato da Ugo Tognazzi. Ovvero un «Salò road-movie».

A spingere De Laurentiis verso Hollywood dopo trent’anni di lavoro spesso trionfali in patria, era stata la legge del socialista Corona, togliendo i sussidi pubblici ai film previsti dalla legge del democristiano Andreotti. Per ottenerli non bastava più che i film girati in Italia fossero di produzione italiana per metà: dovevano esserlo del tutto. Il declino per Cinecittà era segnato. De Laurentiis non volle che quel declino fosse anche il suo. Così, a cinquant'anni, costruì una nuova carriera. Che fu felice come può esserlo la vita di di un imprenditore, dove il denaro è il metro di tutto. Silvana Mangano ne era meno convinta e l’abbandonò non per, ma in occasione della morte del figlio Federico in un incidente aereo. A lei, nei pochi anni residui, restò un’infima idea degli uomini.
Polarizzando la carriera di un uomo che ha deciso o contribuito a

decidere circa cinquecento film, nel caso di De Laurentiis si fa prima a dire i fiaschi clamorosi, come Dune di David Lynch e Tai Pan di Daryl Duke, che lo portarono al fallimento. Fra i successi, invece, Serpico di Sidney Lumet, I tre giorni del Condor di Sidney Pollack, Il giustiziere della notte di Michael Winner. A rivedere le sceneggiature per il de Laurentiis del periodo newyorkese, un prestante ingegnere milanese, oggi noto come romanziere: Alan D. Altieri.

Lo scaffale dei premi non era il primo mobile che De Laurentiis pensava per i suoi uffici. Eppure quello che vi aveva adibito divenne presto esiguo, fra Oscar (La strada, Le notti di Cabiria, condivisi con Carlo Ponti), i Leoni (incluso uno - eccezionalmente - redditizio: per La grande guerra) di Mario Monicelli), David, Nastri.

Chi dirigeva i film - per i quali De Laurentiis trovava i soldi - talora non era lieto d’aver a che fare con lui. Gli aneddoti sono legioni, alcuni sono devastanti. De Laurentiis tagliava i film anche dopo l’uscita, se una scena in meno gli valeva un nemico in meno, specie se politico. Le idee gli interessavano solo se rendevano. Certi registi (Duilio Coletti per Sotto 10 bandiere) abbozzarono. Altri gliela giurarono.

Ingmar Bergman, per esempio. Ricordate Le uova del serpente, il film dove questo reduce della Hitlerjugend indicava negli orrori del trattato di Versailles, diventati gli orrori di Weimar, gli orrori di Hitler? Del senso del film a De Laurentiis non poteva importare meno: lo scontrò col regista avvenne per il protagonista, David Carradine, troppo ubriaco anche per il ruolo dell’alcolizzato. Bergman lo scrisse nelle memorie, uscite vent’anni dopo il film.
Non è l’unico caso di buona memoria. Pochi giorni fa, anche Milos Forman, dalla storia personale e politica opposta a quella di Bergman, si lamentava con me del taglio di mezz’ora inflitto da De Laurentiis al fluviale (tre ore nel director’s cut) Ragtime. «Con la complicità di Doctorow, autore del romanzo all'origine del film», aggiungeva col tono del «pagheranno caro, pagheranno tutto».
Per restare tra i confini nazionali, è diventato un tormentone della critica che l’episodio del «funeralino», il migliore nell’Oro di Napoli di Vittorio de Sica, sia stato tagliato da De Laurentiis, che lo considerava nocivo per gli incassi. Sarà forse per punirsi di quell’errore che De Laurentiis, pochi anni dopo, pagherà un cast folle (Jack Palance e Lino Ventura, Anouk Aimée e Alberto Sordi, Ernest Borgnine e Fernandel) per Il giudizio universale, sempre di Vittorio De Sica, uno dei maggiori fiaschi del periodo.

O forse era il tema religioso a indurlo a rischiare, visto che con La Bibbia di John Huston (fra Peter O’Toole e Ava Gardner, Stephen Boyd e Richard Harris) realizzerà uno dei film a grosso cast peggiori.

Ma non prendete questi episodi troppo sul serio. Senza De Laurentiis, questi film non sarebbero stati tagliati, ma solo perché non sarebbero stati fatti.

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