Le donne si dividono pure per la loro festa

Per l'8 marzo cortei politicizzati. Il mondo femminile non è capace di far fronte unico neanche nel giorno della sua festa: ognuno rivendica un giorno diverso da festeggiare. Che senso ha dividersi? E' lo snobismo di sinistra a fare delle donne il sesso debole

Le donne si dividono  
pure per la loro festa

Ancora si discute su quale e quando sia stata l’origine della giornata della donna, tanto che alcuni hanno parlato di un vero e proprio giallo; altri di un falso storico. C’è chi fa risalire la storica celebrazione al 1908, dopo un incendio in una fabbrica di camicie a New York, nel quale arsero vive centinaia di operaie, che l’avevano occupata per protestare contro lo sfruttamento dei datori di lavoro a loro danno. Altri raccontano della nascita del Women’s day che, dal febbraio 1908, il partito socialista di Chicago organizzava in un teatro, affinché si potesse discutere del diritto di voto femminile e della strumentalizzazione del lavoro delle donne.

In Europa cominciò ad affermarsi «il giorno della donna» dopo il 1911; e così in Russia, sempre a cura delle organizzazioni politiche socialiste. Nel 1921, la seconda conferenza internazionale delle donne comuniste, decretò la data dell’8 marzo «giornata internazionale dell’operaia». In Italia nel 1922 fu per la prima volta celebrato il giorno della donna per iniziativa del partito comunista e nel ricordo della parte significativa che avevano avuto proprio le donne nel rovesciare lo zarismo. Dal 1946, per un’intuizione di Teresa Noce e Rita Montagnana la mimosa divenne il simbolo italiano di questa giornata. Che, fra alterne vicende politiche di segno opposto e, dunque, sempre in bilico tra l’accettazione incondizionata e il rifiuto più o meno motivato, sopravvive ai nostri giorni. Tuttavia, ormai e purtroppo, connotata da contorni e contenuto di bieco stampo commerciale. Col paradosso per cui le donne, che cent’anni fa combattevano contro lo sfruttamento, ora si fanno apertamente sfruttare da aziende alimentari, ristoranti, discoteche, negozi in genere e fiorai che, nel loro nome, vivono una giornata di bengodi. Per non parlare del gesto volgare di gratificare la femminilità con spettacoli di spogliarellisti, partecipazioni speciali di tronisti, crociere sponsorizzate con corsi gratuiti di burlesque.

Dalla lotta per il diritto al voto all’apologia del letto disfatto, come se niente fosse. Danzando sulle spoglie delle operaie, di Rosa Luxemburg e delle femministe. Dal 1975, che è stato dalle Nazioni Unite celebrato come l’anno internazionale della donna, l’8 marzo dovrebbe in tutto il mondo ricordare e onorare la crescita sociale e giuridica femminile, prestando tutti attenzione all’effettiva affermazione di uguaglianza e di parità fra i sessi. Invece tra lazzi, frizzi e cachinni, oggi l’8 marzo si «fa la festa» alle donne; le si adorna di un fiore metafora di per sé dell’effimero; si dà loro una pacca «amorevole», poco più giù della schiena, e la coscienza civile si sente pulita. Ma, quel che è più squallido, molte donne ne sono appagate.

Non solo: nell’ambito del genere femminile, addirittura si creano schieramenti opposti, sì che ciascuno possa rivendicare per sé un giorno da festeggiare. L’8 marzo, quelle che si dichiarano non in vendita, non merce di scambio per i festini, al fine di distinguersi dalle altre, marceranno in piazza accolte da lenzuola bianche alle finestre, per riprendersi la città e la vita pubblica. Altre, invece, il 5 marzo organizzeranno la prima conferenza nazionale sul lavoro e l’occupazione femminile, auspicando di aprirsi a un confronto con tutte le forze politiche. Altre ancora si preparano per il 4 marzo, quando ci sarà una maratona in discoteca e la premiazione delle agenzie pubblicitarie che hanno tutelato l’immagine femminile contro i vieti stereotipi. Poi ci saranno quelle che festeggiano con leggerezza, quelle che si faranno bovinamente festeggiare, e quelle che se ne infischiano ora e poi.

Ognuna di queste posizioni ha il suo gradiente di positività e il suo lato negativo; ma, nell’insieme, che proposta di sé sanno dare le donne che si dimostrano incapaci di unirsi persino nel loro nome? Che senso ha dividersi a compartimenti stagni, quando insieme costituirebbero un coro entusiasta, possente e indimenticabile? È evidente che da una parte c’è uno snobismo insopportabile che, malgrado le idee politiche, solo ventilate, di fratellanza e uguaglianza, impone loro di distinguersi da quella massa giudicata grassa e godereccia. Dall’altra, invece, c’è un’indissimulabile convinzione di sudditanza culturale e storica alle sorellastre di sinistra, tanto da sentire l’obbligo di inventarsi soluzioni differenti, pur concrete, destinate a evaporare passata la «festa».

In mancanza di un direttore d’orchestra e di uno spartito comune, gli strumenti, che suonano ciascuno la propria musica, creano rumori inestricabili e indigesti fastidi. Sono convinta, come Gandhi del resto, che la donna non sia il sesso debole. Anzi.
Un insieme di donne lo diventa, tuttavia, quando è incapace di allearsi (pur nella libertà di dissentire dalle scelte altrui); non esercita la solidarietà; non apprezza la differenza preziosa e irrinunciabile che ciascuna sa e può manifestare. Tutte, invece, devono poter essere certe di contare sull’accoglienza generosa di ogni altra donna, sola e con le altre.

Devono poter sperare nel disinteresse politico e nell’altruismo operativo. Solo onorando, davvero, la sorellanza si può rimanere fiere di essere donna e accettare che continui a esserci un giorno a noi dedicato. Senza alcun imbarazzo, solo se con-diviso seriamente con tutte le altre.

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