Doris Lessing, le canzoni di gesta di una visionaria

Sono oltre cinquant’anni che Doris Lessing - ottantaquattrenne scrittrice inglese dai trascorsi esotici e bellicosi - trasfonde, in libri dalla scrittura prosciugata e dalle vicende di volta in volta realistiche o ammonitoriamente avveniristiche, l’intento di perorare cause e lotte sociali-civili di bruciante drammaticità. Nata in Persia nel 1919 e, quindi, per lungo periodo dimorante nella Rhodesia d’antan (l’odierno Zimbabwe) e, infine, «tornata a casa» nella ruvida nicchia di una Londra rimbombante di traffico e d’incalzanti trasformazioni, Doris Lessing è oggi consacrata voce d’una letteratura vigile e attentissima a quel che accade nel divampante post-Duemila (ma senza decampare dai temi classici della contestazione antiautoritaria: il femminismo, le istanze libertarie, una disinibita moralità). E ripropone nella sua fatica più recente e più innovativa, La storia del generale Dann e della figlia Mara, di Griot e del cane delle nevi (Fanucci, pagg. 238, euro 16), la precipitosa, convulsa favola fantastica che già animava il suo precedente romanzo Mara e Dann (Fanucci, 2004). Un libro questo che «narra di una glaciazione devastante, causa di distruzione per l’Europa. I due fratelli - eponimi eroi del libro in questione - si salvano dal disastro, si fanno nomadi e, dopo mille avventure, attraversando guerre e catastrofi raggiungono il nord dell’Africa» ribattezzata Ifrik, una terra desolata teatro di solitudini e sconforti indicibili. Nell’ideale seguito della Storia del generale Dann..., l’ardimentoso protagonista si fionda in cimenti e avventure sempre più azzardati mosso dall’idea dominante di vincere, da un lato, le proprie irrisolutezze e, dall’altro, di acquisire nuove, più avanzate conoscenze. Accompagnato da un fantastico cane delle nevi, dalla figlia, dalla nipote Mara, Dann agisce, si proietta in ogni sua nuova impresa come un «costruttore di mondi», una fonte incongrua di potere, di dominio, fino a ritrovarsi davvero attorniato di giovani e di personaggi temerari a capo di una comunità statuale di definito e più alto valore civile. Come dire, un mondo nuovo per un’umanità finalmente rinnovata. Si intuisce, perciò, fin da questa informale e carente nota sinottica come Doris Lessing, rifacendosi anche alle sue opere del passato imperniate su temi e toni dagli accenti ora marcatamente simbolici ora manifestamente surreali, proprio nella Storia del generale Dann... «recupera e sovrappone - come sottolinea nella postfazione Oriana Palusci - molti dei suoi interessi: il paesaggio africano (“trasfigurato” in una dimensione futuristica e apocalittica), il ciclo cosmico di Canopus, e soprattutto Il pianeta 8 (1982), un universo immerso nei ghiacci, infine la dimensione visionaria e fantastica delle Memorie di una sopravvissuta». Prende forma e sostanza, secondo queste direttrici di marcia segrete ma avvertibili, la perlustrazione colma di accensioni immaginarie di una realtà in tumulto, di un parossismo cromatico-visionario che ben di rado trova uguale riscontro in opere fantascientifiche di corrivo spessore. Storia del generale Dann... si consolida così in una saga spesso allucinata ove personaggi e vicende, luoghi ed eventi assumono spesso l’intensità, il vigore drammatico di microcosmi archetipici, del tutto proiettati verso insospettati scenari. Basti scorrere qua e là, a caso, scorci di una narrazione sempre tesa e smagliante per avere netta la sensazione di una scrittura panica, risolutamente coinvolgente: «... L’emorragia di una guerra non scorre mai fluida, né limpida: subisce delle interruzioni. Più di una volta Griot pensò che le guerre fossero finite... sentiva di aver superato i limiti, ma poi i rifugiati riprendevano ad arrivare, affamati, traumatizzati... Raggiunse con alcuni di loro i siti commerciali al confine con Tundra e tornò con matasse di lana rossa e tutto l’accampamento fiorì di scarlatto». Eppure, per quanto strenui, esasperati la parabola esistenziale e gli approdi ultimi di Dann, Mara, Griot e accoliti vari giungeranno, «al termine della notte», a un posto acquietato, un «buen retiro» sicuro non tanto perché l’avventura è l’avventura ed esige un epilogo fausto, ma proprio perché una favola, per allarmante che sia, impone una morale e con essa, d’immediato riflesso, una compensazione certa, un esito rassicurante.

Anche se, in effetti, Doris Lessing non indulge né ancor meno indugia nei suoi scritti, ad alcun consolante lieto fine, ma, larvatamente, ambiguamente, prospetta e promette sempre più sghembe, allarmanti canzoni di gesta.

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