Dostoevskij fra i demoni della Magliana

Un tragico incidente automobilistico, accaduto in una via periferica di Roma, offre l'occasione per alzare il sipario su una serie impressionante di crimini commessi molti anni prima

Dostoevskij fra i demoni della Magliana

Molti lettori saranno giunti a conoscenza dei fatti che hanno recentemente scosso l’opinione pubblica nella città di Roma: fatti che hanno coinvolto a un tempo la cronaca mondana, quella sportiva, naturalmente la nera e persino, in un certo senso, la cronaca religiosa, con la scoperta del cadavere di un delinquente seppellito nientemeno che dentro una chiesa, e con tutti gli onori, per giunta! Ma fra i tanti personaggi che hanno preso parte alla macabra commedia uno ha fatto perdere in seguito le proprie tracce, tanto che nessuno ne ha mai fatto parola. Solo io e pochi altri conosciamo la vicenda per intero, poiché si dà il caso che il personaggio in questione sia nativo proprio della nostra città, e che sua madre, Varvara Petrovna, sia, per dirla tutta, mia buona amica di vecchissima data. Si tratta, per farla breve, del nostro caro Nikolaj Vsevolodovic Stavrogin. La notizia delle avventure di Nikolaj Vsevolodovic a Roma - dove si era recato la prima volta per curare una fastidiosa affezione sulla cui natura la madre non aveva mai voluto far parola con nessuno - fu riferita a me e ai soliti amici lo scorso luglio dalla stessa Varvara Petrovna, che alcuni giorni prima aveva ricevuto la visita di uno studente, anch’egli figlio della migliore società della nostra città, giunto da noi da Roma, ma soltanto per qualche ora, innanzitutto per assistere al funerale del padre, il vecchio generale G., e poi per uno scambio di vedute con la nostra cara Lizaveta Aleksandrovna, da qualche tempo piuttosto annoiata. Sembra che, durante i suoi molti e prolungati soggiorni a Roma, il nostro Stavrogin si sia sempre condotto nel migliore dei modi, non disdegnando feste e ricevimenti senza però dimenticare le relazioni convenienti, per usare l’espressione della stessa Varvara Petrovna, alle quali sembra si sia fatto introdurre dallo stesso dottore che si sta occupando del suo piccolo malanno. Del resto, sono molti i nostri connazionali che passano diversi mesi dell’anno a sollazzarsi a quei climi benefici, sembra, per tutte le malattie della gola e degli occhi (benché poi si sia saputo che il guaio del nostro Nikolaj Vsevolodovic riguardava un vecchio incidente al piede sinistro), ma poco indicati - lo dico per gli eventuali interessati - per quelle della pelle. Ci andò anche il caro Etienne, ossia Stepan Trofimovic, a causa di certi suoi catarri, ma ne fece ritorno dopo un brevissimo soggiorno, qualcuno dice perché non ne ebbe giovamento, qualcun altro perché non sopportava lo stile in cui le sue chiese erano state edificate (Stepan Trofimovic è, come si sa, uomo sensibilissimo allo stile), qualcuno - e sono i più - perché era rimasto senza il becco di un centesimo. Ma, a proposito. Il nostro giovane concittadino, quello che ha riferito i fatti a Lizaveta, la quale ne ha successivamente informato Varvara Petrovna e tutti noi, è un tipo alquanto strano: gira per la città tutto intabarrato e non ama mostrarsi in volto. Io non potei partecipare al funerale del generale G. a causa di una fastidiosa febbre, ma chi c’era mi assicura che, al rito, questo figlio non fu visto da nessuno. Dico queste cose perché quel giovane è grande amico di Nikolaj Vsevolodovic, e ne condivide molte idee. I fatti noti ai lettori cominciano in modo quasi casuale, con un incidente avvenuto nella periferia di Roma: un giovanotto alla guida di un automezzo si trovava in stato di profonda distrazione a causa di un litigio in corso con la bella fidanzata, che sospettava di tradimento, o forse era lei che sospettava di lui, quando la loro corsa, esageratamente veloce, si arrestò contro un altro automezzo, di dimensioni molto più ridotte, provocando la morte accidentale di due ragazzi. Questo, che sarebbe a ben guardare il caso più doloroso di tutti, poiché nulla è tragico e degno di pianto come la morte di un ragazzo nel fiore dell’età, si ridusse però ben presto a nulla più che all’esca cui abboccò un pesce ben più grande, perlomeno agli occhi dei giornalisti. La ragazza che si trovava sull’automezzo assassino era infatti la figlia di un celebre, anziano campione sportivo assai conosciuto in tutta Roma. La madre della ragazza spuntò allora, possiamo dire dal nulla, spinta da non si sa quali pensieri, presentandosi alla polizia locale nella sua ancora apprezzabile bellezza ma distrutta nell’anima, così si espresse, e ben decisa a dire tutto quello che sapeva a proposito di alcune vicende criminali rimaste negli anni senza spiegazione. L’incidente occorso alla figlia, disse, l’aveva indotta a rompere il silenzio. Da gran tempo questa donna non era più la moglie del celebre sportivo romano. Desiderosa di condurre una vita dispendiosa ma poco propensa ad accettare la corte troppo distratta del marito, un bel giorno, trovandosi con le amiche in una magnifica piazza romana, seduta a un tavolino, ricevette gli omaggi di un bel giovanotto che si faceva chiamare Renatino e che, per quanto ne so, era sinceramente innamorato di lei. Lo stesso Stavrogin ci aveva fatto cenno, tanto tempo fa, a queste cose, ma l’aveva fatto nel suo solito modo confuso, più interessato ai contenuti per così dire filosofici che non al banale svolgimento dei fatti. Del resto l’anima russa non ama mai soffermarsi sul banale svolgimento dei fatti, e così pure quella romana - e si può ben dire che questo sia il solo punto di vicinanza tra le due anime, per il resto diversissime tra loro. «Roma possiede» ci disse una volta Nikolaj Vsevolodovic «una società tutta sua, dalle cui leggi non è possibile affrancarsi. Uomini politici, scrittori e giornalisti vivono a stretto contatto tra loro a causa ora di una cena tra amici, ora di un ricevimento particolare, ora di una festa in qualche villa. Non si tratta però di una società chiusa, così come non lo fu ai tempi dell’Impero, da cui viene, perpetuandosi, questo particolare costume. A quei salotti, a quegli incontri, a quelle cene partecipano molti altri individui, spesso di origine popolare: attori anche non di prima scelta, belle ragazze, giovani ambiziosi e desiderosi di mettersi in mostra, uomini silenziosi ma molto abili nel creare incontri dal carattere più privato». A questo punto, il volto di Stavrogin fu attraversato da quel suo tipico sorriso, che è il perfetto contrario di un’illuminazione. «Ci sono molte persone che hanno qualcosa da comprare e molte che hanno qualcosa da vendere». «Droga?» domandai. «Droga» rise Stavrogin. «Ricchezza. Fama. Donne bellissime. E, soprattutto, potere. La chiave di un incontro sta nel sapere esattamente quello che una persona vuole e quello che l’altra è disposta a dare». Renatino era un frequentatore di quei ricevimenti. Bello, giovane, vivace, esercitava molto fascino sulle mogli, e c’era chi cercava di usarlo per mettere in difficoltà questo o quell’avversario. Ma il giovane aveva certe idee sue, non chiarissime ma ben ferme: una delle quali era quella di non prestarsi ai giochi altrui se non per ricevere in cambio aiuti e favori per i propri giochi. Durante una cena, Renatino fece la conoscenza di Nikolaj Vsevolodovic, e tra i due nacque un’immediata simpatia. Stavrogin non impiegò molto tempo a capire il genere di uomo che si trovava di fronte: quando poi quello gli rivelò di essersi innamorato perdutamente di una donna vista in televisione, il profilo che già il nostro amico aveva disegnato dentro di sé acquistò contorni più netti. Renatino era, in fondo, una persona semplice, con una sola, grande passione capace di corromperlo: il denaro. Quello che occorreva sapere (e che, del resto, nemmeno Renatino sapeva, a quell’epoca) era fino a che punto si sarebbe potuto spingere. Fu così che Nikolaj Vsevolodovic decise di mettersi in azione, per motivi eminentemente scientifici, come ebbe a dire più di una volta. Desiderava vedere in che modo si sarebbe manifestata la corruzione in un individuo posseduto dalla brama di denaro. A suo avviso, la natura umana sana conosce poche passioni, sistemate secondo un preciso e invariabile ordine gerarchico: più in basso c’è il desiderio carnale, poco più in su la fama, poi la ricchezza e infine, più in alto di tutti, il potere. Ciascuna di queste passioni produce un particolare tipo di corruzione: e se il potere produce la più terribile di tutte, esso è, d’altra parte, anche la più naturale delle tentazioni, per cui si può affermare - così spiega Stavrogin - che la brama di potere costituisce la minore delle deviazioni, la meno patologica. Io sospetto che dicesse questo soltanto perché in lui la brama di potere era così assoluta e pura da non soffermarsi su alcuna forma in cui questa si sarebbe potuta realizzare (ma anche limitare). Molti sono gli eventi nei quali la presenza di Nikolaj Vsevolodovic fu decisiva. La scelta di cominciare ad agire su Renatino facendo leva sul più sano (ancorché confuso, trattandosi comunque di un amore nato sul fascino della televisione, e dunque della notorietà, del prestigio e, in definitiva, dell’ambizione) dei suoi sentimenti, si rivelò azzeccata. L’incontro del giovane romano con la bella moglie dello sportivo in quella bella piazza fu opera sua. Grazie al successo ottenuto, Stavrogin guadagnò la fiducia incondizionata del giovane ambizioso, e poté così cominciare a lavorarselo da dentro. Ora, va detto che l’irrequietezza era a quel tempo il sentimento sovrano della buona società romana, e si estendeva perciò ben oltre le ambizioni di un qualsiasi belloccio di periferia. Stavrogin conobbe politici irrequieti, intellettuali irrequieti ed uomini di chiesa sommamente irrequieti. Tutti, nel segreto, volevano qualcosa, che spesso non coincideva con le ambizioni dichiarate: e Stavrogin sembrava essere nato apposta per mettere allo scoperto le ambizioni vere. Conobbe ad esempio un criminologo assai desideroso di vedere messe in pratica le sue teorie, ma anche ecclesiastici pronti a tutto, o quasi, pur di liberarsi del nuovo pontefice, un uomo nato nella detestabile Polonia e affetto da una fede in Gesù Cristo (opera di un persuasore certo non inferiore a lui, ammise Stavrogin) così potente da rischiare di far saltare tutti gli equilibri che il Vaticano era riuscito a stabilire con tanta fatica. Stavrogin persuase il suo amico a gettarsi a capofitto nelle imprese che, mescolando questa e quella scontentezza, sembravano prendere corpo da sole, una dopo l’altra: non semplici ruberie - nelle quali Renatino, nel frattempo, e all’insaputa della sua nuova donna, si era specializzato - ma rapimenti destinati a far parlare molto a lungo, uno su tutti, a lui commissionato da uomini molto addentro negli affari ecclesiastici ed entrati da tempo in amicizia con lo stesso Nikolaj Vsevolodovic. La ragazza rapita, di cui per molti anni nessuno seppe più nulla, era figlia di un funzionario del Vaticano, il quale Vaticano attraversava in quel periodo, a dispetto della santità del Papa, acque molto cattive. Un banchiere molto legato agli affari vaticani era stato trovato impiccato sotto un ponte di Londra: anche lui un tempo legato a grandi amicizie romane, aveva più volte conversato con Nikolaj Vsevolodovic, trovando «irresistibilmente pericolosa» ma anche «stimolante» la sua intelligenza. La fotografia della ragazza era stata affissa per tutta Roma per diverso tempo, e pochi sanno che fu lo stesso Stavrogin a suggerire al tipografo la forma del manifesto, così che l’immagine della poveretta si stampasse come una minaccia nella mente di tutti. E così fu. Se la ex-moglie dello sportivo e poi moglie di Renatino non si fosse decisa a parlare dopo la morte di quei due poveri ragazzi, gran parte di questo racconto non si sarebbe mai saputa, anche perché il solo a conoscenza dei fatti non avrebbe mai parlato. Dopo la morte della ragazza rapita, l’amicizia tra Renatino e Nikolaj Vsevolodovic si appannò. Renatino accusò il nostro amico di molte infamie, tra cui quella di tentare la fedeltà della sua donna (cosa assolutamente falsa), ma poi non lo fece uccidere, cosa questa piuttosto strana. Renatino era un uomo ricco e potente, e qualcuno riferisce - ma su questo punto c’è da andar cauti, tant’è che lo stesso Stavrogin si è sempre rifiutato di dire anche una sola parola in proposito - che abbia preso parte, non si sa quale parte, addirittura al tentato omicidio del Papa. Omicidio che, visto con gli occhi di poi, appare in effetti come il coronamento di tutta un’epoca di rapimenti, morti misteriose, impiccagioni, avvelenamenti. Senza contare la morte a dir poco sospetta del precedente pontefice dopo un solo mese di pontificato, e del quale il nuovo papa polacco aveva voluto, significativamente, assumere il nome. L’ultima parte della vita di Renatino è avvolta anch’essa nel mistero. Si parla di un suo riavvicinamento alla religione, di grandi donazioni in denaro, tipiche di un uomo tormentato da grandi colpe, e forse di pentimento, fino alla morte e alla scandalosa sepoltura in una chiesa romana: onore tributato ai benefattori, ma non da estendere a tutti i benefattori, non fosse che per motivi di decoro pubblico. Ora che anche il nostro Nikolaj Vsevolodovic non è più tra i vivi, dopo il racconto di Lizaveta Aleksandrovna accade spesso a noi amici - purché lontano dalle orecchie ancora buone dell’ormai vecchissima Varvara Petrovna - di discutere della sua controversa figura. Il vecchio Stepan Trofimovic Verchovenskij, che tra noi fu il più sodale con i rivoluzionari, ma che in fondo conserva ancora molto, forse a causa dell’età, della grande anima russa, ci ha sorpresi tutti, l’altro giorno, con queste parole. «Vedete amici, alla fin fine il nostro Nicolas (come l’aveva sempre chiamato, ndr) era un uomo puro: egli, lasciatemelo dire, esercitava il potere nella sua purezza. Non volle mai essere zar né dittatore, e odiava, come noi tutti, la regalità vuota e un po’ patetica della Chiesa di Roma. Egli era un vero russo, e quindi un uomo spirituale, ma la pura spiritualità può coincidere con il puro potere, che a sua volta coincide - ma questo l’ho capito solo da poco tempo - con il puro Nulla. Sissignori, il Nulla non è un’idea, quanto piuttosto il pantano nel quale tutte le idee, e soprattutto tutte le cose reali risultano senza gerarchia, tutte dello stesso valore, della stessa importanza, tutte ugualmente indegne di memoria». All’inizio le sue parole avevano suscitato un certo brusio tra noi tutti, ma ora che aveva ottenuto il nostro silenzio ci guardò uno per uno, girando intorno gli occhi ormai malandati a causa dell’età e dei troppi libri. «Chi, vuoi per le molte delusioni, vuoi per l’avvicinarsi dell’ultima ora, vuoi per una grande fortuna occorsagli, comincia ad amare l’essere e a odiare il nulla, deve essere disposto ad accettare la sua impurità, la sua carnalità, la sua sporcizia. E sapete che vi dico? Sono contento che il Papa, benché polacco, sia scampato a quel destino che trovo troppo orribile anche per un polacco. Invidio la sua fede: non solo non ha paura di niente, ma sembra addirittura che, nonostante la pallottola, continui a considerare amico il mondo, anzi: questo mondo». «Ma insomma» sbottò allora il nostro Liputin, che - lo si era visto fin dall’inizio - non era punto d’accordo con quello che il vecchio Verchovenskij andava dicendo «vuoi dire che trovi bello il fatto che un criminale da due soldi sia stato seppellito in chiesa con tutti gli onori? Io lo trovo francamente vomitevole». Stepan Trofimovic rise. «Elegante non è, questo è certo. Ma addirittura vomitevole, via!». «Sissignore. Vomitevole». «Io invece comincio a trovarci una bella forza, in tutto questo. Un uomo brama la ricchezza, conosce le seduzioni del Nulla, compie atti più grandi di lui come di chiunque altro, poi comincia a capire, e si mette a cercare Dio». «E secondo te l’ha trovato con un po’ di soldi donati alle missioni cattoliche?». «Questo non lo sappiamo né tu né io, caro Liputin. Sappiamo però che l’ha fatto». «Ma la Chiesa! Seppellirlo in luogo sacro!». «A me» rispose il vecchio, pervaso da una tranquillità che non gli avevamo mai conosciuto «piace anche questo. Un delinquente. Un assassino. Pentito, in ginocchio.

Se capisco qualcosa, direi che la Chiesa vorrebbe seppellire nei luoghi sacri soprattutto la gente come lui, e non certo i buoni di professione». Fece una pausa per prendere fiato. «E questa è, credo, la sola cosa che ho capito, nella mia lunga e inutile vita, a proposito della natura di Dio».

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