Il drago partorì l’Iliade fascista degli sconfitti

Pietrangelo Buttafuoco si dà al romanzo. Il risultato? Un racconto costruito come l’opera dei pupi ma scritto come un poema epico

Per spiegare da dove nasce il Pietrangelo Buttafuoco romanziere (Le uova del drago, Mondadori, pagg. 286, euro 17) bisogna rifarsi a uno pseudonimo del Pietrangelo Buttafuoco giornalista: Dragonera. In Rinaldo in campo, commedia musicale dei primissimi anni Sessanta, Dragonera era Domenico Modugno, capobrigante di una banda composta da appena due elementi (Franchi e Ingrassia al loro esordio sul grande palcoscenico) e poi eroe garibaldino. Per certi versi Rinaldo in campo fu il canto del cigno del «teatro dei pupi», riproposizione moderna secondo questo schema antico dell’epopea risorgimentale, l’unica nella storia unitaria d’Italia a potersi considerare vittoriosa, più romantica che cinica, elitaria e non disfattista. Si trattò di un capolavoro assoluto, di genere alto e basso, vulgo nazional-popolare: grandi musiche, grandi interpreti, uso sapiente della lingua e del dialetto, personaggi costruiti su uno stereotipo, l’eroe, il compagno, il traditore, l’amata, comicità e retorica, sentimento e dramma. «Siamo rimasti in tre/ tre somari e tre briganti/ sulla strada lunga lunga di Girgenti» era l’incipit della canzone incaricata di ricondurre alle giuste proporzioni i sogni di gloria di Dragonera e dei suoi prodi. «Ma pecché fai chidda faccia accipigliata Dragoné... Comandaci ca anche contro tutti possiamo andare. Anche contro i cicloppidi... Ma siamo sempre in tre/ tre briganti e tre pistole/ sulla strada da Girgenti a Monreale.../ Sì ma c’è il castello/ del marchese di Mondello/ uno passa dal portone/ uno salta dal bastione/ uno ammazza i servitori/ due si pigliano i tesori/ e ce ne andiam./ Ma se siamo in tre/, tre somari e tre briganti... un due e tre»...
Nato nel 1963 Buttafuoco non ha fatto in tempo, all’epoca, a vederlo in teatro e poi alla televisione, ma l’incisione discografica, il racconto di chi ne fu spettatore, qualche riproposizione nei teatri di marionette, una successiva edizione teatrale negli anni Ottanta con Massimo Ranieri per protagonista, devono aver sedimentato nella sua testa di bambino prima, di adolescente poi. Unite a letture siciliane più classiche (Pirandello, il Natoli dei Beati Paoli, De Roberto più che Tomasi di Lampedusa, Sciascia sicuramente, Brancati...) a contaminazioni futuriste e dannunziane, alle poesie di Gottfried Benn e alla filosofia di Heidegger, ma anche a passioni musicali moderne eppure desuete (Battiato, Paolo Conte, Kaled...) a influenze intellettutali esoteriche e sapienziali (Guénon, Crowley, i Veda), questo bagaglio ha costruito nel tempo uno stile di scrittura particolare e unico. All’inizio della sua professione i più cinici e/o più invidiosi dei suoi colleghi erano soliti dire: «È troppo scrittore per essere giornalista». Nel tempo si erano convertiti a un: «Bravo sì, peccato sia un romanziere mancato». Con Le uova del drago Buttafuoco dimostra come sia invece l’uno e l’altro, indipendentemente, alternativamente. E ai massimi livelli.
Se per capire il romanziere occorre rifarsi a una commedia musicale di Garinei e Giovannini, per spiegare il perché del romanzo ci sarà consentito citare un film di Mario Monicelli: Tutti a casa. Già il fatto che sulla più grande tragedia morale del nostro Novecento, l’Otto settembre, l’unica, vera riflessione nazionale sia stata una pellicola comica e autoconsolatoria la dice lunga sulla nostra coda di paglia: l’errata corrige di una storia ventennale affidata al vizio italiano della furbizia, al cinismo dolente di chi non ha mai saputo credere in nulla. La scena emblematica è quella in cui il sottotenente Innocenzi, magistralmente interpretato da Alberto Sordi, grida al telefono: «Colonnello è successa una cosa incredibile. I tedeschi si sono alleati con gli americani», allorché i «camerati germanici» sparano sui suoi soldati. Purtroppo, invece, eravamo proprio noi che ci apprestavamo a cambiare il cavallo in corsa, sperando che l’altro fantino non se ne accorgesse e giurando che fosse proprio quello l’animale che avevamo sempre montato. Noi che per esorcizzare il dramma ci saremmo poi perfezionati nella farsa.
Come ha scritto Salvatore Satta nel Giorno del giudizio «l’individuo che il 10 giugno 1940 aveva opposto se stesso alla guerra concludeva logicamente l’Otto settembre il suo ciclo: da ladro. Come per salvarsi aveva voluto la sconfitta, così trovava nella sconfitta quel titolo per il saccheggio che di solito si trova nella vittoria. Un’Italia senza virtù invisa ai propri figli, spregiata dallo straniero, indifferente alle miserie nelle quali è caduta, gli italiani aspettanti dalle mani altrui chi la restaurazione dei privilegi perduti, chi, sotto parvenza di libertà, l’instaurazione di nuovi».
Secondo lo storico Claudio Pavone, «ancora oggi considerare l’Otto settembre come una mezza tragedia o come l’inizio di un processo di liberazione è una linea che distingue le interpretazioni d’opposta sponda». Purtroppo non è così e non si tratta qui dello spartiacque riduttivo e semplicistico fra fascismo e antifascismo. È molto di più, è il divario fra chi si rende conto che la catastrofe abbattutasi è stata nazionale, morale prima che politica, ha riguardato il carattere, inciso sulla nostra immagine futura, segnato il riemergere di vizi antichi, e chi ha preferito, anche in buona fede, non vedere, rifugiandosi nella complicità naturale degli istinti primari: sopravvivere, innanzitutto, riordinare i più rassicuranti cliché di un’italianità buona, umile, sottomessa, cui, per fortuna, sono negati destini più grandi, ma più terribili.
È in questa seconda ottica che si è data vita a un’Odissea casareccia, come quella raccontata da Italo Calvino ancora a ridosso della fine della guerra: «Cos’è infatti l’Odissea? È il mito del ritorno a casa... È la storia degli Otto settembre, la storia di tutti gli Otto settembre della Storia: il dover tornare a casa su mezzi di fortuna, per paesi irti di nemici». Un’interpretazione suggestiva, non fosse che Ulisse e i suoi intraprendono il loro viaggio verso casa al termine di una guerra vittoriosa in terra altrui, il solo Ulisse si salva, e di Otto settembre «la Storia» conosce solo il nostro.
All’Odissea badogliana di Calvino Pietrangelo Buttafuoco oppone in Le uova del drago una sorta di Iliade fascista dei vinti. La ambienta in quella Sicilia che, geograficamente e militarmente tagliata fuori dai contraccolpi della guerra civile al nord, meglio si presta ai destini individuali, alle scelte puramente estetiche e/o etiche, alla epicità del gesto più che alla riflessione sul da farsi o alle implicazioni ideologico-politiche sulle scelte da compiere. Sulla base di alcuni episodi storici realmente accaduti e poi via via dimenticati man mano che la costruzione della Resistenza come mito fondatore della Nuova Italia andava radicandosi, costruisce loro intorno una filigrana romanzesca dove spie nazionalsocialiste, preti siciliani combattenti, guerrieri musulmani e soldati italiani si muovono persi e presi dietro l’acuta coscienza dell’onore, l’onore smarrito, l’onore da ritrovare, l’onore da difendere.
Tutto in Le uova del drago è epopea, ma lo è alla maniera dei cavalieri antichi. E infatti il romanzo è costruito come un’incredibile opera dei pupi, teatrino di marionette in cui c’è Agramanante e Brandimante, Gano Maganza e Orlando... Al rischio, voluto, di non dare spessore ai suoi personaggi, l’autore si sottrae premendo l’acceleratore di una lingua sontuosa senza per questo essere barocca, costruita e padroneggiata spogliando il dialetto di ogni esibizionismo compiaciuto e riconsegnandolo all’oralità di un italiano alto, colto, aristocraticamente sanguigno. «Capitò la strettezza del destino in quel mentre ed i banditi si organizzarono. Fecero furia in ogni contrada... Furono tempi soltanto tristi, quelli che capitarono: e mentre i fascisti continuavano a spendersi in politica, gli sbandati sparavano e gli idealisti facevano vampe, così che tutta la polvere asciutta ancora disponibile dentro la canna del moschetto potesse essere sparata, sparata come quando si sputa sangue».
Così, ogni incipit di capitolo immerge il lettore in una narrazione piena dove il piacere del racconto si fa suono, plastica rievocazione, effetto visivo. Romanzo d’avventura e di avventure Le uova del drago racconta l’occasione per almeno una grandezza: «Schivare il destino da pupi che incombe su chi abita l’estrema periferia, lì dove capita soltanto il nulla». Pur se il titolo del libro richiama alla mente quello di un film, non dei migliori, di Ingmar Bergman, L’uovo del serpente, esso affonda la sua realtà nelle memorie familiari dell’autore, il ricordo di un’epoca e di personaggi che alla dischiusura metaforica e romantica di quelle uova affidavano il compito di perpetuare un’idea, ovvero un frammento di giovinezza: ciò per cui si era creduto, ciò per cui si aveva combattuto, ciò per cui si aveva sofferto e pagato. Ma nel romanzo non c’è nulla di rancoroso o di nostalgico, proprio perché l’epica è di per sé gioiosa e beffarda, malinconica ma non cupa, e basta in quanto tale a riempirti la vita. E proprio perché in terra di Sicilia i fantasmi, i deliri, l’ordinario scambiato per miracoloso e il miracoloso derubricato a norma, il verosimile trasformato in vero e l’incredibile considerato come possibile fanno parte di un popolo, di un modo d’essere.
Divenuto garibaldino il Dragonera di Rinaldo in campo trasfigurava i suoi compari in un esercito: «Ma se tu proponi/ di piombare sui Borboni/ uno aggira l’avamposto/ l’altro attacca il fronte opposto/ uno sfodera il trombone/l’altro balza sul cannone/ uno lega la vedetta/ l’altro ammazza la staffetta/ uno attacca gli artiglieri/ e li prende prigionieri/ uno piomba sull’alfiere/ e gli strappa le bandiere/ uno invece fa man bassa/ sopra i viveri e la cassa/ uno impegna in un duello/ generale e colonnello/uno acciuffa con la mano/ il maggiore e il capitano/ uno infilza col pugnale/ il sergente e il caporale/ ed intanto a poco a poco/ tutto quanto è a ferro e fuoco/ pei nemici non c’è scampo/ quando c’è Rinaldo in campo/ il Borbone se la squaglia/ abbiam vinto la battaglia viva Hurrà»... Nella finzione musicale funzionava.

E lì poi c’era il sole caldo della vittoria... Nella vita, Buttafuoco, lo sa, al gelo della sconfitta «le uova del serpente» non si schiusero. Né allora né dopo... «Ma se siamo tre/ tre somari... tre briganti/... solo tre».

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