Duce, i diari del cameriere li ha scritti Indro o Vanzina?

Nuova ipotesi sulla paternità delle memorie di Quinto Navarra. Enrico Vanzina: "Papà diceva di essere l'autore". Ma chi ha lavorato una vita con Montanelli riconosce il suo stile in alcune pagine

Duce, i diari del cameriere 
li ha scritti Indro o Vanzina?

Si dice che il successo ha molti padri, ma nel caso di Quinto Navarra i molti padri spettano a un insuccesso. Le memorie del cameriere di Mussolini, pubblicate nel 1946, risultavano essere, per la firma in copertina, opera del Navarra stesso. Fu presto chiaro che penne più agili e scaltre di quella del piccolo funzionario da cui dipendeva l’anticamera di Palazzo Venezia - ossia il flusso dei visitatori e soprattutto delle visitatrici - avevano maneggiato quel materiale traendone squarci memorabili di storia imperiale, di routine burocratica, di cronaca galante.

Ai ghost writers fu dato un nome, Leo Longanesi editore e Indro Montanelli, arrangiatore geniale del testo. Adesso Enrico Vanzina affaccia, con una cortese lettera, l’ipotesi che suo padre - Stefano Vanzina, nome d’arte Steno - della «memorie» sia stato il vero autore. Con tutto il rispetto per Steno, che aveva talento da vendere, ho la convinzione che l’attribuzione dai più ritenuta vera lo sia stata davvero.

È capitato più d’una volta che Montanelli, nelle nostre chiacchierate, accennasse a quel colpaccio editoriale sostanzialmente fallito. Sempre me ne ha parlato come d’una invenzione di Longanesi - straordinario nel cogliere le potenzialità giornalistiche e letterarie di figure minori - e d’una sua fatica titanica. Per vincere le ritrosie di chi era vissuto accanto al potere, e per trasformare in racconto interessante i risvolti d’una esistenza sfiorata dai riflettori, ma ostinatamente tenuta in penombra.

Montanelli non diceva papale papale, ma io lo sospettavo maliziosamente, che quanto Navarra andava narrando fosse stato arricchito da lampi non suoi ma di Indro. Bravo come nessun altro - lo attestano i suoi ritratti - nell’intrecciare squarci di verità a qualche annotazione più vera della verità stessa. Non so in quale misura sia autentico - è possibilissimo che lo sia - il modo in cui Navarra racconta il 25 luglio 1943, Mussolini al suo tavolo nella sala del Mappamondo dal cui balcone aveva arringato le folle oceaniche, ma in attesa, fuori dalla porta, dove di solito c’era calca, nessuno. Poi Navarra sente suonare il campanello. «“Mi avete chiamato Duce?”. “Non mi sembra”. Uscii. Ero certo tuttavia che egli mi aveva chiamato». Non si sarebbe potuto fissare meglio il crollo del regime. Navarra o Montanelli o Longanesi, o magari Steno? Chiunque abbia azzeccato quella fulminante istantanea è stato tacitianamente capace di sintetizzare la storia.

Il libro non ebbe successo per motivi che Montanelli non si stancava di allineare. Era stato prematuro, «doveva precedere i tempi non i decenni» la sua sentenza, che Roberto Chiarini, nel suo articolo di presentazione dell’opera, ha molto opportunamente citato. L’Indro di quegli anni era uno specialista di queste intuizioni incomprese. In Qui non riposano aveva affiancato le vicende di tre personaggi-uno palesemente autobiografico - spiegando come fascismo e antifascismo, convinzioni ideali e opportunità materiali, eroismno e viltà, si alternassero nelle situazioni, e come non vi fossero che eccezionalmente, da una parte e dall’altra, purezze immacolate.

Le Memorie del cameriere di Mussolini (il commesso trasformato in cameriere, forse perché secondo un detto popolare i grandi non hanno segreti per il loro cameriere, l’idea suppongo sia stata di Longanesi) erano fatte per non piacere a nessuno di coloro che occupavano la ribalta. Non piacevano agli antifascisti, figurarsi. Il loro chiodo fisso era quello di rappresentare il Duce come un despota implacabile e crudele, dal quale per vent’anni era stato oppresso l’italico popolo ansioso di sottrarsi al giogo. Invece si trovavano di fronte sì a un tiranno, o a un istrione che si atteggiava a tiranno, ma che aveva abitudini da travet subalpino e gesti d’umanità di stampo romano-romagnolo. Ai nostalgici del fascismo il Duce del Navarra riusciva intollerabile, perché le rivelazioni sulla «favorita» e sulle avventurette quotidiane dell’Insonne ne avvilivano la dimensione cesarea. Così ridimensionato, ma anche per certi aspetti riabilitato, l’Uomo che aveva riportato l’Impero sui colli fatali di Roma diventava autentico, e per questo incompatibile con le opposte retoriche.

La gente comune e di buon senso avrebbe dovuto amare quel libro, ma era troppo impegnata, ancora, a risolvere i guai derivanti dalle distruzioni, dalla sconfitta, dall’umiliazione d’Italia per apprezzare lo scavo storico e insieme il pettegolezzo divertente di Quinto Navarra. O di Montanelli e Longanesi. O di Steno.

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