Ecco come in Africa la Cina sta creando un impero di schiavi

Nuovi colonizzatori. Paghe da fame in cambio dello sfruttamento delle immense ricchezze del Continente Nero. Per 3 dollari al giorno bimbi di 10 anni rischiano la vita nelle miniere dell’ex Zaire

Ecco come in Africa la Cina 
sta creando un impero di schiavi

Sono i nuovi schiavi. Hanno la pelle nera e talvolta poco più di dieci anni. Per tre dollari al giorno s’infilano nell’inferno, sfidano la morte regalando al grande invisibile padrone giallo la nuova ricchezza. Le porte dell’inferno sono a pochi chilometri da Likasi, una città nel sud del Congo (ex Zaire). A mezz’ora di bici da quel vecchio centro minerario del Katanga una voragine sprofonda per 25 metri nelle viscere della terra. Lì in quell’orrendo cunicolo residuato dell’era coloniale centinaia di nuovi schiavi scavano con le unghie e i denti, strappano alla terra le ultime briciole di cobalto e rame. Sono il simbolo del novo colonialismo giallo, della nuova razzia targata Pechino che da qualche anno depreda il Continente Nero. A Likasi Peter Hitchens, un giornalista inglese deciso a raccontare la storia dei nuovi schiavi, è stato assalito, messo in fuga, minacciato di morte. Sono le regole del nuovo colonialismo, del silenzioso bottino che spoglia l’Africa di ogni sua risorsa, la convoglia verso est, la manda ad alimentare il nuovo impero capital-comunista.
Nelle gallerie fetide e oscure di Likasi non esistono regole, non esiste disciplina, non esistono controlli. I lavoratori devono solo sperare di risalire vivi da quei budelli precari, pericolanti e infetti dove il crollo è all’ordine del giorno, dove feci e resti animali regalano dissenteria e colera. Poco importa. Ciascuna di quelle vite vale meno delle schegge di rame e cobalto che stringono pugno. Contano solo i secchi riempiti, la merce trasportata a stanga di bicicletta fino a Likasi dove i commercianti cinesi aspettano per pagare e rivendere la merce alle grandi compagnie della madre patria.
I pozzi della morte di Likasi sono solo uno fra le centinaia di nuovi inferni africani generati dal nuovo colonialismo cinese. Talvolta come nel caso del Congo la fame di energia e materie prime della nazione più popolosa del pianeta offre anche i pretesti per nuove tragedie e nuovi massacri. Laurent Nkunda, il signore della guerra responsabile dell’assedio a Goma, rivendica di aver ripreso le armi per bloccare il contratto da nove milioni di dollari che assegna a Pechino il controllo di 10,6 milioni di tonnellate di rame e di oltre 600mila tonnellate di cobalto in cambio della costruzione di ferrovie, dighe, ospedali e strade. Ma il diavolo o l’inferno si nascondono sempre nei dettagli perché tre miliardi di quei dollari andranno in impianti minerari posseduti e controllati da ditte cinesi in cui lavoreranno solo tecnici, esperti ed operai con i passaporti di Pechino. Paghe e ricchezze generate dai nuovi investimenti torneranno insomma a casa e ai congolesi resteranno sofferenza, fatica e la desolazione di un paese spogliato delle proprie ricchezze.
Così, mentre l’Europa studia come far fronte alla nuova emergenza di Goma e cerca fondi per gli aiuti umanitari, Pechino usa l’Africa come piattaforma a basso costo per lo sviluppo della propria egemonia economica. Da quando si è aperta la corsa alla nuova frontiera il volume dei commerci è passato dai 5,6 miliardi di dollari del 1996 a oltre 50 miliardi nel 2006 con stime per l’anno in corso intorno ai 100 miliardi. Insomma dopo essersi lasciata alle spalle Francia e Inghilterra la Cina si prepara a scalzare anche gli Stati Uniti e a diventare il primo partner economico del continente nero. Lo schema della conquista è sempre lo stesso, vale per il Congo come per il resto del Continente e garantisce ai nuovi colonizzatori il controllo del petrolio in Sudan, Angola, Gabon e Guinea Equatoriale, lo sfruttamento di buona parte del legname del Mozambico, il monopolio sull’estrazione del rame dello Zambia. Ovviamente la merce più ricercata da un paese affamato d’energia è il petrolio a basso costo. Nel 2006 le aziende cinesi controllavano già il nove per cento di tutto il greggio africano e lo utilizzavano per soddisfare un terzo dei propri consumi. Molto spesso la valuta più apprezzata per l’acquisto dell’oro nero sono le armi. Pechino, non a caso, ha conquistato il controllo del 60% del petrolio del Sudan fornendo al suo esercito gli arsenali utilizzati per il genocidio del Darfur. E ad aprile di quest’anno non ha esitato a inviare al dittatore dello Zimbabwe Robert Mugabe una nave piena di armi, bloccata solo dalla una denuncia dei lavoratori portuali sudafricani.
In Zambia Michel Sata, il leader dell'opposizione, che proprio ieri ha accusato il governo di Lusaka di aver truccato le presidenziali per impedire la sua elezione, da tempo denuncia l’invasione cinese e la spoliazione degli immensi giacimenti che fanno dello Zambia il maggior produttore di rame. «I cinesi non vengono qui per investire, ma per invaderci - denuncia Sata - portano idraulici, muratori, carpentieri e ai lavoratori dello Zambia resta solo il lavoro più pericoloso, più degradante, il lavoro pagato con salari da schiavitù». La conquista del rame di Lusaka è iniziata con la promessa di cancellare il credito di Pechino e di creare all’interno della cosiddetta “cintura del rame” una moderna zona di sviluppo economico dotata d’infrastrutture sportive, scuole, ospedali e un centro di cura per la malaria. In cambio di quegli investimenti Pechino ha di fatto assunto il totale controllo della zona e delle sue miniere. La “cintura del rame” si è così trasformata in un territorio d’oltremare dove valgono solo i regolamenti e i metodi di lavoro imposti dalle nuove aziende colonizzatrici. E dove i caduti sul lavoro sono irrilevanti incidenti di percorso.

A Chambishi nessun operaio ha dimenticato la cinica indifferenza dei nuovi padroni di Pechino di fronte alle 54 vittime rimaste sepolte sotto le macerie di una fabbrica di esplosivi cinesi saltata in aria nel 2005. «In Cina - spiegarono i dirigenti - per cinquemila morti nessuno manco si volta, qui per 54 vittime tutti piangono».

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